
Nella mostra presso l’ArtNoble Gallery di Milano Staccioli continua a mettere a fuoco la sua ricerca sull’idea di paesaggio e della sua rappresentazione
“La natura imita ciò che l’opera d’arte le propone. Avete notato come, da qualche tempo, la natura si è messa a somigliare ai paesaggi di Corot?”
Si interrogavano così i personaggi Vivian e Cyril nel celebre saggio del 1891 di Oscar Wilde The Decay of Lying sul fatto che la vita imitasse l’arte più di quanto invece accadesse al contrario. Il poeta irlandese prendeva pertanto posizione su come l’arte non esprima mai altro che sé stessa, e come semmai dal suo immaginario vengano suggeriti schemi mentali che l’uomo usa per interpretare la realtà che lo circonda, così come il paesaggio. Per abusare di un’ultima citazione, quella dello storico dell’arte Simon Schama, “i paesaggi sono cultura prima di essere natura; costruzioni dell’immaginazione proiettate sul legno, sull’acqua e sulla roccia”, essi non sono pertanto diversi da prodotti culturali, frutto di un’elaborazione mentale che attribuisce loro delle caratteristiche e ne esclude delle altre.
Digressioni, mi perdonerete, che non son certo necessarie ma che trovo comunque utili per aprire una riflessione sull’ultima mostra di Luca Staccioli, Falling Flowers, inaugurata il 25 marzo presso l’ArtNoble Gallery di Milano e che chiuderà a fine giugno. Benché giovane, Staccioli è un artista che ha saputo già farsi valere nel campo dell’arte, con importanti riconoscimenti, l’ultimo dei quali lo ha visto figurare tra i finalisti del Premio Cairo. Attraverso una pratica multidisciplinare che spazia dalla scultura, alla pittura e disegno, installazione, fotografia e video, Staccioli porta avanti la sua indagine sul presente, sulla società e sull’individuo, e sui costrutti mentali con i quali cerchiamo di codificare la vita.

In questa nuova personale, l’artista continua a mettere a fuoco la sua ricerca sull’idea di paesaggio e della sua rappresentazione. Un florido glicine, con i suoi racemi carichi di foglie, scende dalla volta candida della galleria. Parrebbe ondeggiare leggermente, forse mosso da uno spiffero d’aria. Ma a ogni passo verso di esso, la scena si rivela sempre più straniante: non si tratta affatto di una pianta, bensì di un bizzarro accumulo di fili elettrici e ruote da sedia d’ufficio – o meglio, calchi in ceramica o cemento – mossi da un piccolo motorino. Sono oltre duemila elementi, risultato di un’elaborazione di Staccioli che imita ironicamente la produzione industriale. Ma la reiterazione ossessiva ha finito per logorare le matrici con cui sono stati realizzati, differenziando di fatto ogni singolo pezzo: da quelli ancora nitidi e dettagliati, ad altri ormai consumati e lisi. Sabotage of a Working Day, Flowers è il titolo dell’opera, lo stesso che porta anche la costellazione di grappoli di rotelle più piccoli, disseminati sulle pareti.
Oggetti d’uso quotidiano, implementati dalla nostra società per rendere più performativa e confortevole l’attività lavorativa, vengono ripensati da Staccioli, che ne mina l’efficienza originaria per coagularli in nuove forme di realtà. Già nel 2024, al Miart, aveva presentato Kit eliminacode multifunzione (fichi d’India), in cui le familiari chiocciole-dispenser dei supermercati assumevano le sembianze di sinuosi cactus. Oggetti normalmente ignorati, ma emblematici della nostra società capitalistica, spasmodicamente votata al consumismo e alla produzione, si ibridano con la natura. Diventano moduli plastici per una riflessione sul paesaggio, che nei meccanismi di rappresentazione contemporanei viene trattato come un qualsiasi altro prodotto: replicabile, vendibile e consumabile.

Con le sue opere, Staccioli ci invita a immergerci nella complessità del concetto di paesaggio, rifiutando le rappresentazioni stereotipate del naturale e del romantico come rifugi idilliaci e incorrotti dove ripararsi dalle fatiche della contemporaneità. Le sue sculture, o meglio antisculture, si oppongono con forza a una retorica ancora dominante, tanto nell’immaginario collettivo quanto nell’arte contemporanea: nessuna piantina che spunta dal cemento come segno di rivalsa del naturale sull’artificiale, nessun ciuffo d’erba eretto a metafora di resilienza.
Staccioli parte invece dalla constatazione che poiché riconosciamo un paesaggio solo quando ci appare inalterato (e ancor più nei nostri post), la sua rappresentazione è in realtà selettiva e manipolata. Escludiamo dalle foto auto, industrie, pali della luce, rifiuti sulle spiagge – elementi considerati disturbo visivo – contribuendo così a trasformare il paesaggio in un prodotto edulcorato, pronto per il consumo.

Anche questi gesti rientrano negli espedienti della civiltà del mercato, che rendono il contesto appetibile, confezionandolo come qualsiasi altra merce. È qui che Staccioli rivela con lucidità la potenza demiurgica del capitalismo: un sistema capace di creare e distruggere allo stesso tempo, modellando la realtà secondo logiche di efficienza, desiderabilità e profitto. In Panorama (olio su carta), la rappresentazione stereotipata del paesaggio viene nuovamente messa in crisi. L’artista utilizza un’etichetta trovata su una latta raccolta in un oliveto, un elemento che, a tutti gli effetti, fa parte dello stesso ambiente. L’etichetta che presentava una macchia d’olio è stata poi manipolata attraverso scansioni digitali e una viratura cromatica, evocando così una massa informe che richiama uno scorcio di gusto romantico, giocato su delicate e tenui tonalità di rosa. Tuttavia, la finzione del panorama edulcorato viene negata dalla presenza di un codice a barre e di altre iscrizioni, che ne rivendicano l’origine commerciale e industriale, riportando l’opera a un piano di realtà più crudo e critico.
In Falling Flowers, Staccioli prosegue la sua indagine sulle icone del consumismo, concentrandosi questa volta sulle immagini stereotipate dei fiori. Resi con tratti essenziali e infantili, questi motivi sono spesso al centro del branding di numerosi prodotti, come la carta igienica, che non a caso diventa la superficie privilegiata della sua creatività. Lavorati con il cemento, i fiori si trasformano in piccoli bassorilievi e mattonelle, che conservano solo apparentemente la sofficità originaria, quella stessa morbidezza su cui il marketing di questi prodotti insiste costantemente.

Anche in quest’opera convivono interferenze di natura industriale: inserti di viti e bulloni si contrappongono all’apparente delicatezza della carta, richiamando elementi propri del costruire e dell’abitare. Questi dettagli complicano e stratificano l’opera, giocando su contrasti e cortocircuiti visivi e concettuali.
Insomma, Staccioli ci pone di fronte a un mondo di incoerenze, fragilità e complessità che la retorica capitalista spesso cerca di appiattire, semplificare e polarizzare. È un mondo in cui la natura e l’artificiale, la bellezza e la mercificazione, la creazione e la distruzione si intrecciano in modo indissolubile, sfidando ogni tentativo di lettura univoca.

A queste tensioni, l’artista risponde con una creatività libera e senza vincoli, capace di trasformare la morbidezza, elemento distintivo e ricorrente nelle sue opere, in una forma di resistenza poetica e concettuale. Una morbidezza che non è solo materica o estetica, ma una cifra attraverso cui indagare l’ambiguità del nostro tempo, il fragile equilibrio tra opposti e la continua ricerca di nuovi significati.
In questo senso, il lavoro di Staccioli non si limita a descrivere o criticare: invita a un’esperienza estetica e intellettuale che apre a riflessioni profonde sul ruolo dell’arte e della società, lasciando spazio all’incertezza e alla complessità invece che alla facile rassicurazione.