
Il direttore della Mostra di Pesaro riflette sui sessant’anni del festival: tra pellicola e realtà virtuale, video-saggi e ricerca formale, il cinema indipendente continua a interrogare il presente. E la critica? “Parlare di immagini senza mostrarle è un limite: il futuro è audiovisivo”
Il 21 giugno si è conclusa la 61ª edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Un’occasione per incontrare il direttore Pedro Armocida e fare il punto su un festival che da oltre sessant’anni esplora le forme più radicali del cinema contemporaneo, promuovendo autori, linguaggi e visioni fuori dagli schemi.
Intanto, per chi ancora non lo sapesse, qual è la mission della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro?
Abbiamo un nome particolare, direi unico tra i festival: “Mostra Internazionale del Nuovo Cinema”. Il termine “nuovo” è centrale e non solo nel titolo: rappresenta fin dalla nascita della manifestazione, nel 1965, una vocazione precisa. In quegli anni il cinema stava vivendo una fase di profondo rinnovamento: basti pensare alla Nouvelle Vague in Francia e ad altre correnti che stavano emergendo ovunque. Era un momento di grande fermento creativo, in cui il cinema cercava nuovi linguaggi, nuove forme espressive.
Ovviamente oggi quel “nuovo” non è più il nuovo di allora. Non ci sono più le avanguardie storiche, ma ci sono ancora autori che lavorano sulla forma cinematografica, che sperimentano come avviene nelle arti visive o in letteratura. Questo è il terreno che cerchiamo di esplorare, in particolare con il nostro concorso principale, che si chiama appunto “Pesaro Nuovo Cinema”. È lì che si concentra la missione del Festival: intercettare nuove forme, nuove direzioni del linguaggio cinematografico, con uno sguardo sempre attento al cinema indipendente e alla ricerca.
In un momento di crisi generalizzata del cinema, come il settore indipendente riesce ancora a rigenerarsi? E soprattutto: può davvero rappresentare una forma di sostentamento per i nuovi autori?
Direi di sì, anche se con le dovute distinzioni rispetto al cinema mainstream o commerciale. Penso a quello che in Spagna chiamano “l’altro cinema”: un cinema leggero, spesso autonomo, realizzato con mezzi minimi. È un cinema che vive anche fuori dalla narrazione classica, spesso vicino al documentario o al cinema del reale. È un sistema che vive, direi, soprattutto grazie ai festival. E qui parlo anche da membro dell’AFIC, l’Associazione dei Festival Italiani di Cinema. C’è chi parla di “film da festival” con un’accezione negativa, ma io non sono d’accordo: i festival, in Italia e nel mondo, muovono centinaia di migliaia di persone e offrono un’alternativa concreta alla distribuzione tradizionale.
Vivere di cinema è spesso un mistero, soprattutto per i giovani autori che affollano i festival. Hanno scoperto un nuovo modello di sostenibilità o c’è qualcosa che ci sfugge?
Il pubblico dei festival è vivo, presente, giovane. Ma è vero anche che per molti autori il cinema non è l’unico lavoro. Insegnano, scrivono, fanno altro. Non esiste più, o quasi, la possibilità di vivere di un solo mestiere. C’è una questione di classe che si fa sempre più evidente: molti autori provengono da famiglie che possono permettersi di sostenere economicamente questa scelta. Non se ne parla molto, ma è una realtà. Il cinema, come l’arte, ha sempre richiesto tempo e risorse. E questo ha sempre privilegiato chi queste risorse già le possiede.
Quindi l’arte, che dovrebbe essere uno strumento di apertura, di nuovi punti di vista, oggi è per lo più accessibile solo a chi può permettersela?
È un rischio reale, sì. Però il sistema festival, in parte, prova a contrastarlo. Alcuni festival – anche internazionali – offrono fondi per lo sviluppo, per il pitch, per la produzione. E ci sono film, anche italiani, che magari costano pochissimo, ma riescono a girare il mondo grazie ai festival. Quindi sì, direi che è un sistema virtuoso, che andrebbe sostenuto e potenziato. Non è perfetto, ma permette a molti film – e a molti autori – di esistere, di essere visti, anche fuori dai canali canonici.
A proposito di accessibilità, approfitto per chiederti un parere sulla sostenibilità dei festival, considerando che sei nel direttivo dell’AFIC. Prendiamo Venezia, ad esempio: gli affitti al Lido hanno raggiunto cifre proibitive, al punto che perfino sistemazioni modeste diventano inaccessibili per giornalisti, operatori e studenti. Cosa ne pensi?
È un problema serio. I costi aumentano di anno in anno, spesso più dell’inflazione. E anche chi lavora stabilmente nel settore è costretto a soluzioni collettive, a condividere case, a trovare escamotage. Io stesso, pur avendo possibilità di alloggiare altrove, preferisco mantenere una dimensione più “universitaria”, condividendo con colleghi. Ma è chiaro che è una situazione limite. Sarebbe bello trovare soluzioni stabili, pensate per chi fa questo mestiere con continuità. Ma qui entra in gioco la volontà politica della città: e non so se Venezia sia davvero interessata a sostenere questo tipo di turismo culturale non elitario.
Quindi, ad esempio, immaginare residenze a prezzi calmierati per professionisti habitué, da riutilizzare anche per iniziative durante l’anno, è solo un’utopia?
Non è un’utopia, ma servirebbe un progetto vero, con qualcuno che ci creda, come fece a suo tempo Gillo Pontecorvo con “Cinema Avvenire”, portando centinaia di studenti al Lido. Oggi non vedo molte figure simili in giro, disposte a investire tempo, risorse, e credibilità su progetti di questo tipo. Ci vorrebbero persone che amano davvero i giovani, che vedano nel cinema un bene comune.
Torniamo a Pesaro: sei direttore dal 2015, quindi quest’anno è il decimo anniversario per te. Che tipo di evoluzione hai notato nelle produzioni e nella selezione?
Il cinema che seguiamo a Pesaro è super-indipendente, quindi spesso sottratto alle logiche di mercato. Da questo punto di vista non vedo flessioni. Ogni anno riceviamo circa 500 film, un numero contenuto rispetto ad altri festival perché non apriamo a piattaforme massive: chiediamo agli autori di iscriversi direttamente, senza fee. Questo ci garantisce film più motivati, più vicini alla nostra visione. Ci sono annate più ricche e altre meno, certo, ma la varietà resta ampia: corti, lunghi, anche opere di tre ore o più.
E l’anno scorso avete anche aperto alla realtà virtuale, giusto?
Sì, è stata una nuova sezione che vogliamo continuare a esplorare, perché rientra pienamente nella nostra idea di “nuovo cinema”: forme ibride, immersive, sperimentali. È una direzione che molti autori stanno prendendo e che ci sembra coerente con la nostra storia.
Il Festival del cinema di Pesaro è famoso anche per la riflessione critica e teorica. Mi ricordo dei quaderni, ad esempio. Esistono ancora?
Sì, i volumi verdi, i cosiddetti “volumi verdi di Pesaro”, editi da Marsilio nella collana Nuovo Cinema, fondata da Lino Miccichè, che è stato anche il fondatore del Festival. La collana è nata negli anni ’70, quindi qualche anno dopo l’inizio del Festival. Il volume di quest’anno è dedicato a Gianni Amelio, omaggiato con l’evento speciale sul cinema italiano. La Mostra Internazionale del Nuovo Cinema è diventata fin da subito anche un riferimento per la riflessione critica sul cinema, grazie anche alla produzione di approfondimenti editoriali. Ancora oggi pubblichiamo un catalogo generale che non contiene solo schede dei film, ma veri e propri saggi introduttivi scritti dai curatori delle singole sezioni, oltre a interviste con gli autori. È, direi, più un libro che un semplice catalogo. In parallelo, con Marsilio – che è la casa editrice di riferimento del Festival da quasi mezzo secolo – pubblichiamo una monografia annuale. L’anno scorso, ad esempio, ne abbiamo realizzate tre: una su Luca Guadagnino, una su Franco Maresco, e una su Ficarra e Picone. Quest’anno ne abbiamo pubblicate altre tre, anche perché Pesaro è Capitale Italiana della Cultura 2024, quindi abbiamo “esagerato” un po’, anche dal punto di vista editoriale. Quella principale è, come dicevo, su Gianni Amelio, autore che abbiamo omaggiato nell’evento speciale. L’idea di pubblicare ancora oggi libri sul cinema è per noi un motivo di orgoglio e un modo per rimanere fedeli all’identità del Festival: mostrare i film, promuoverli attraverso dibattiti e incontri, e analizzarli in profondità anche attraverso pubblicazioni scientifiche, come quella che ho curato con Anton Giulio Mancino.
Vengono tradotti anche in inglese?
Non ancora. Vengono pubblicati in italiano da Marsilio, e sono disponibili anche in formato ebook, ma al momento non esistono edizioni in lingua inglese.
Ci spieghi meglio che si intende per nuovo cinema?
Sì, una cosa importante. Il concetto di nuovo cinema, che è al centro del Festival fin dalla sua fondazione, oggi lo decliniamo anche attraverso i formati: proponiamo film e opere che difficilmente avrebbero spazio su un grande schermo altrove.
Per esempio, abbiamo una sezione dedicata ai videoclip, un concorso che si chiama Vedo musica, e una sezione dedicata ai video-saggi – che è la prima e unica in Italia.
Che intendi per video-saggi… che tipo di lavori ricevete? Che temi possono trattare?
Di tutto, purché abbiano a che fare con il cinema. Possono essere analisi su autori, su movimenti cinematografici, sul linguaggio, su tematiche contemporanee… Provengono da tutto il mondo, perché il concorso è internazionale. Nel mondo anglosassone il formato è molto più diffuso. Ci sono università, riviste e archivi – come il British Film Institute – che ogni anno stilano una classifica dei migliori cento video-saggi. Alcuni sono davvero straordinari. In Italia invece la critica è ancora un po’ indietro su questo fronte, anche se ci sono studiose come Chiara Grizzaffi che si occupano attivamente di questi formati e lavorano anche con noi. Come diceva Adriano Aprà – che abbiamo omaggiato quest’anno – l’unica vera forma di critica cinematografica del futuro è quella che avviene attraverso i video-saggi. Perché parlano di cinema attraverso il cinema, attraverso il linguaggio delle immagini e del montaggio, che è esattamente quello dell’oggetto che stanno analizzando. Purtroppo, e lo dico anche come autocritica, in Italia abbiamo una tradizione di scrivere e parlare di cinema… senza mai mostrarlo. Anche nei convegni, nei dibattiti accademici, parliamo di un’arte in movimento, ma raramente la vediamo davvero in movimento. Questo è un limite che dovremmo cercare di superare. Quindi Federica… mettiamoci anche noi a produrre video-saggi!
E invece per quanto riguarda realtà virtuale e immersività?
Abbiamo aperto una sezione dedicata l’anno scorso, grazie al fatto che Pesaro ha ottenuto un finanziamento come Casa delle Tecnologie Emergenti (CTE). L’anno scorso la selezione era curata da Simone Arcagni, uno dei massimi esperti italiani nel campo della VR. Quest’anno, invece, ci siamo appoggiati a una realtà locale che si chiama Hangartfest, che lavora da anni sul rapporto tra danza e video. Con loro abbiamo realizzato un premio dedicato alla video-danza, Vida Italia, e ospitiamo le proiezioni immersive nello spazio della Chiesa della Maddalena, un luogo bellissimo. Lì, grazie alla collaborazione con la CTE, abbiamo inserito anche alcuni lavori di VR immersiva che raccontano la danza in forme nuove.