Print Friendly and PDF

Obnubi #2. Il sabato del villaggio. Gli spettatori “imprevisti” e l’arte contemporanea

Giulio Polloniato, La caduta del cielo. Foto DM
Giulio Polloniato, La caduta del cielo. Foto DM
Lo sguardo “trasversale” di Obnubi stavolta ci conduce in un sabato sera “di provincia” piuttosto differente: in un foyer di un teatro dove l’arte si è confusa con la vita quotidiana, “cadendo dal cielo”

Sabato sera. Contro ogni abitudine questa sera esco di casa (niente film con i mostri alieni) e vado a fare una passeggiata nel centro della mia città – città di provincia, quasi un villaggio – così mi mischio con tutti quelli che abitualmente al sabato sera escono e si fanno la passeggiata per incontrare altra gente, ai miei occhi di sedentario che ama la solitudine sono creature misteriose e vagamente aliene, ma questa è un’altra storia. Il motivo di tanta temerarietà è che voglio vedere un’installazione temporanea che si intitola La caduta del cielo aperta solo per poche ore, dalle 20 alle 24. È un’opera del giovane (davvero giovane) artista Giulio Polloniato, l’installazione – riporta il foglio di sala – è curata da Bucce studio per Fondazione Roi, ed è frutto della collaborazione tra Bacàn (associazione culturale che si occupa di musica e, più in generale di suoni) e ife_collective (collettivo che intreccia le arti visive e gli ambienti ecologici e umani) e si inserisce nel contesto della Festa della Musica promossa dal Comune di Vicenza (si, Vicenza è il mio villaggio).

Giulio Polloniato, La caduta del cielo. Foto DM

La cosa interessante è che questa Caduta del cielo – “un sistema di sei altoparlanti” che diffonde un tappeto sonoro fatto di frammenti e innesti, da cui sembra emergere una sorta di drammaturgia e “tre immagini della caduta di una torre piezometrica, scattate dall’artista, in occasione del suo abbattimento” – è installata nel foyer di un ex cinema piazzato nel cuore della città ma chiuso ormai da trent’anni che Fondazione Roi ha acquistato per restituirlo alla città come centro culturale (grazie alla guida di Francesca Lazzari). Si tratta del primo passo di una riapertura lungamente attesa, un primo passo compiuto anche segnalando con precisione quella che si presume e spera sarà la rotta che l’ex cinema Corso terrà nei prossimi anni. Sull’opera in mostra c’è poco da dire, nel senso che era un “dispositivo” ben congegnato, equilibrato ed evocativo, calato molto bene nel contesto – in effetti, un cantiere con il quale dialogava attraverso una sorta di controcanto: se con La caduta del cielo l’artista alludeva a un momento di crollo, di distruzione e perdita, al contrario il luogo raccontava di una ricostruzione, di uno sforzo di rinascita.

Per me, visitatore di mostre di arte contemporanea e pertanto abituato a confrontarmi con oggetti di questo tipo, la visione e l’ascolto del lavoro di Polloniato non ha rappresentato un problema di leggibilità, capivo (o per lo meno mi illudevo di capire) il linguaggio dell’artista e i riferimenti formali impliciti derivanti da una modalità di espressione artistica ormai consolidata. Insomma, il senso dell’operazione mi era chiaro perché di cose di questo tipo avevo già fatto esperienza in mostre, biennali, musei, ecc. in luoghi cioè sempre specializzati e consacrati, per così dire, all’arte contemporanea e ai suoi strani linguaggi – il filosofo A. C. Danto la definisce “la cornice istituzionale dell’arte” che rende, di fatto, possibile tutta l’arte “postduchamp”, in cui un orinatoio più essere una scultura, anche.

Sabato sera però la cornice era diversa, anzi quasi non c’era e il confine netto che separa molto spesso l’arte dalla vita era quasi assente. Ed era molto bello. Per tutto il tempo che mi sono trattenuto – non poco – ho osservato le altre presone che con me partecipavano all’evento: la maggior parte di coloro che hanno messo piede dentro al foyer del cinema non aveva la minima idea di cosa stesse succedendo, e certamente (origliati alcuni commenti) facevano fatica a collegare l’installazione di Giulio Polloniato al concetto di arte – non era musica, né pittura, né niente di riconducibile a quello che comunemente si pensa quando si pensa all’arte. Però entravano perché incuriositi dai suoni, dalle luci, dal capannello di gente che sostava all’esterno e dal cinema nuovamente aperto dopo così tanto tempo. Alcuni, più giovani, non lo avevano mai visto, altri, i vecchiotti come me, hanno avuto il loro bel momento Amarcord.

Giulio Polloniato, La caduta del cielo. Foto DM

Ma questo muoversi di persone “impreviste” dentro a un contesto che prevede sempre invece un pubblico specializzato e attento, reso possibile dall’assenza di un diaframma esplicito, che spesso risulta essere una barriera, ha trasformato, per la maggior parte delle persone che l’hanno vista e ascoltata, la fruizione dell’opera un’esperienza aperta e sorprendente. Non credo sia importante che questi spettatori abbiano “compreso” l’intenzione dell’artista, che ne abbiano apprezzato la poesia e la pulizia formale; andare alle mostre non è come andare a scuola, non c’è una lezione da apprendere, semmai c’è un’esperienza da compiere e la qualità, il senso dell’esperienza sta dentro lo sguardo dello spettatore. Per questo ogni esperienza è di per sé, in qualche misura, trasformativa. Sono sicuro che per tutti coloro che sono passati per il cinema Corso, da oggi, quel luogo si è trasformato diventando anche uno spazio in cui possono accadere cose strane e affascinanti, sebbene non comprensibili.
Si tratta di un piccolo cambio di percezione, un ampliamento della possibilità dello sguardo. Mi ha fatto venire in mente John Cage, I’ve got a secret, che andava a suonare la sua musica inascoltabile in televisione tra le risate di un pubblico incapace di capire ma che intanto, grazie a quell’esperienza, spostava in avanti di una tacca la propria idea di cosa può essere musica. In fondo è sempre stato il progetto e la modalità dell’avanguardia del Novecento, sciogliere l’arte dentro la vita per far cadere ogni distinzione, per far tornare l’arte nella “prassi della vita”. Credevo che quelle cose fossero ormai solo documenti in bianco e nero consegnati alla storia dell’arte. Mi sbagliavo, sabato l’ho capito. Grazie Giulio.

Commenta con Facebook