
A Napoli la Galleria Andrea Ingenito Contemporary Art presenta la collettiva“I to Eye”, titolo che gioca tra il pronome “I” (io) e il sostantivo “eye” (occhio)
Nel cuore pulsante di Napoli, tra la luce tagliente del mare e la stratificazione vivente della storia, la Galleria Andrea Ingenito Contemporary Art presenta “I to Eye”, una collettiva che è, prima di tutto, un esercizio di reciproca rivelazione. Curata da Gabriele Perretta, la mostra si manifesta come un dispositivo critico e sensoriale che interroga il ruolo dello sguardo nell’epoca della sovraesposizione visiva e della mediazione tecnologica.
“I to Eye” è un invito a reimparare a vedere ma anche a essere visti. Lo stesso titolo è frutto di un’ambiguità semantica tra il pronome personale “I” (io) e il sostantivo “eye” (occhio): l’io e l’occhio si specchiano a vicenda, creando un ponte tra l’interiorità del singolo e la realtà esterna. Il visitatore è chiamato a posizionarsi «su quella linea di metà campo, verticale e al centro dell’immagine», come afferma il curatore, in un equilibrio fragile e radicale tra chi guarda e chi viene guardato.

La mostra, aperta dal 24 maggio al 5 luglio 2025, riunisce un eclettico gruppo di artisti italiani e internazionali, tra cui Damien Hirst, Mario Schifano, Marco Abbamondi, Maurizio Cannavacciuolo, Davide Maria Coltro, Santolo De Luca, Jeffrey Isaac, Heinrich Nicolaus e Sawangwongse Yawnghwe. Attraverso pittura, fotografia, installazione e linguaggi digitali, l’esposizione offre una «mappa frammentata ma vitale dello sguardo contemporaneo», interrogando il modo in cui le immagini ci coinvolgono, ci interrogano e, in ultima analisi, ci trasformano, lasciando un’impronta profonda nella nostra percezione – o sarebbe meglio dire nella nostra storia.
Presenza consapevole
Lo sguardo, man mano che focalizza le opere, accende l’immaginazione, la memoria, la fragilità e il desiderio. Guardare non è più un gesto automatico o distante, ma è un atto di presenza consapevole, vero e proprio impegno sensoriale. L’opera d’arte non si limita a chiedere attenzione, non cerca un rapido scorrimento, ma esige una risposta, una risonanza profonda nell’animo di chi osserva. E così “I to Eye” diventa spazio d’incontro autentico, dove l’immagine si fa risonanza, soglia, possibilità di trasformazione personale.

Una delle affermazioni centrali del curatore risuona potente, toccando corde universali: “È proprio perché siamo fatti della stessa pasta di ciò che vediamo nell’opera d’arte, che essa ci è tanto familiare e tanto enigmatica”. Un eco di questa verità si ritrova in ogni lavoro, suggerendo che l’arte non è processo elitario e distante, bensì è una scoperta inevitabilmente e intrinsecamente legata alla nostra essenza. Il pensiero curatoriale di Perretta attraversa la mostra come un respiro necessario, guidando il visitatore attraverso i meandri della percezione. “Hai mai provato a guardare davvero la frontalità di un’opera? Per incontrarti, per incontrare i tuoi occhi di spettatore partecipante?». Non si tratta di guardarsi «nello specchio, non per controllare se sei dentro la memoria, se è a fuoco o sfocata, bella o al posto giusto”.
È in “quel punto preciso in cui il tuo sguardo si fa fragile e il cuore rallenta: lì c’è l’opera, c’è la visione dell’altro, il punto di cecità, di rottura, lo sbaglio, l’errore e la deviazione dell’arte”. In un’epoca dominata dalla sovraesposizione visiva e dal flusso incessante di immagini, l’arte chiede sosta. Chiede corpo. Chiede lentezza. Questa mostra si propone quindi come un antidoto alla superficialità, invitando a una contemplazione più che attenta: un atto di resistenza contro la distrazione, un momento di autentica connessione con ciò che ci circonda e, di conseguenza, con noi stessi.

Riflettere e riflettersi
Gli artisti scelti affrontano il tema dello sguardo attraverso media diversi – pittura, fotografia, installazione, linguaggi digitali – ognuno con una propria cifra stilistica e concettuale, ma accomunati dalla volontà di riflettere e riflettersi. Damien Hirst, uno dei nomi più acclamati e influenti dell’arte contemporanea, con la sua iconica opera Circle Spin Painting, esplode in un vortice cromatico centrifugo che ipnotizza: i cerchi di colore, generati da un dispositivo meccanico, si fanno metafora dello sguardo come movimento perpetuo, instabile, quasi cosmico, e al contempo sono un inno all’armonia del caso. Mario Schifano, figura centrale e ribelle della scena culturale italiana degli anni Sessanta, è presente con il suo Monocromo del 1960.
Quest’opera è uno dei primissimi pezzi del ciclo dei Monocromi, una serie che Schifano avrebbe continuato a esplorare nei decenni successivi. Similmente, Marco Abbamondi esplora la fusione tra materia e concetto, dando vita a forme biomorfe che riflettono la sua visione dell’esistenza. Nell’opera Lands Puro Pigmento, attraverso la lavorazione del cemento e della polvere di sughero, l’artista crea una relazione intima tra la materia naturale e le forme che ne emergono, producendo opere in costante e apparente trasformazione. I pigmenti utilizzati offrono scorci di terre lontane, verso le quali l’artista viaggia frequentemente, evocando paesaggi ancestrali e memorie profonde.

Di fronte, Maurizio Cannavacciuolo – formatosi nel vibrante contesto napoletano della Galleria di Lucio Amelio – è una delle voci più originali della mostra. Le sue quattro opere, El Gabbón Gibbón Giggìn Gobbòn Vs Bonbòn Bombòn Olè por favor, Papè Vs Pepe Vertigo, Gimme Five VS The Partially Invisible Breeze, Hombre de negocio VS Chulito Lindo, sono vere e proprie scene di vita concreta, ricche di dettagli e segni. In queste superfici dense, dove nulla è lasciato al caso –effettive esercitazioni di horror vacui – tutto è in dialogo: corpi, linguaggio e architettura cubana. Tramite una figurazione iconica che sfiora l’astrazione, l’artista costruisce mondi affollati, intessuti di simboli ironici e riflessivi, permeati da influenze extra-europee che invitano lo spettatore a decifrare strati di significato.
Flussi visivi
Ugualmente eloquente, e formalmente anch’egli ricco di dettagli da catturare e – se possibile – congelare, è l’opera di Davide Maria Coltro, esempio lampante della transizione dalla pittura bidimensionale all’arte digitale. La sua opera SPRING, che rientra nella sua definizione di «Astrazione Mediale», è in costante trasformazione, generando flussi visivi non narrativi, governati da algoritmi generati dall’artista. Ogni immagine è un fotogramma autosufficiente, connesso ad altri in un ordine sempre mutevole, offrendo una nuova esperienza percettiva in cui il divenire visivo non è nemmeno neurologicamente registrabile, un flusso ininterrotto che ridefinisce i confini dell’immagine in movimento. In continuità, fotografica e pittorica, è la poetica di Jeffrey Isaac, artista emerso dalla vivace scena artistica newyorkese dove ha collaborato con Keith Haring e Sol LeWitt. Isaac adotta un approccio unico alla creazione di immagini: parte da un patchwork digitale di fotografie, che poi trasforma in pittura in un processo raffinato e caratterizzante.

La sua capacità di sovvertire l’ordinario con un’ironia tagliente crea teatrini dell’assurdo dove il quotidiano si rovescia nel “surreale”, offrendo uno sguardo divertito e profondo sulla realtà. Santolo De Luca, invece, con la sua opera Il rosso scrive il rosso invita a una riflessione sulla materia e sul colore, sulla loro capacità di evocare significati. Heinrich Nicolaus, in No Problem, esplora il grottesco e il surreale con ironia e senso del paradosso: il volto in primo piano – deformato, disturbante, appena delineato – ci guarda e ci sfida, rovesciando ogni gerarchia tra soggetto e oggetto in un’affermazione di apparente leggerezza che cela una sottile provocazione. Infine, Sawangwongse Yawnghwe racconta storie di esilio, trauma e memoria con una pittura densa, stratificata, profondamente politica e personale, come è evidente in Society is impossible without freedom.
L’affermazione diretta del titolo aggiunge un ulteriore livello di riflessione sociale al tema dello sguardo e della percezione, trasformando l’opera in un manifesto visivo, un grido per la libertà – attualissimo – che risuona attraverso la tela. La stessa libertà interrogativa e diretta emerge nello sguardo della donna raffigurata nell’altra opera presente in mostra: Louisa Bensen/Miss Burma/violet.
“I to Eye”, attraverso la progressiva riscoperta della potenza dello sguardo, apre a un denso spazio di riflessione in cui l’arte non è solo “l’essere vista” per antonomasia, ma diventa relazione, contatto, risonanza.
Ogni visitatore è chiamato a riconoscersi, occhio nell’occhio, poiché, come suggerisce il testo curatoriale, “lo sguardo può essere, e deve essere, sia centripeto che centrifugo”: uno sguardo capace di attraversare l’immagine per tornare a noi, più consapevoli, più presenti. In un mondo in cui l’immagine è ubiqua e spesso vuota, questa mostra è un passo necessario nell’apertura di un cammino, tutto da percorrere, verso forme di sguardi più consapevoli, poiché, l’arte non si limita a essere vista: l’arte ci vede.













