
Da tre artisti fra loro lontani esposti alla Peggy Guggenheim Collection e alla Pinault Collection parte un excursus che focalizza momenti topici della storia dell’arte
Le tre belle mostre personali attualmente visitabili a Venezia inducono alcune riflessioni sulla loro fruizione possibile. Trattandosi di artisti assai diversi tra loro si potrebbe propendere in un primo momento per valutazioni disconnesse che ne indaghino le singolarità, nel qual caso ogni esperienza navigherebbe per conto suo nella frantumazione consueta del mondo. Ma le direzioni dei tre artisti non sono del tutto arbitrarie e individuali, dato che a ben vedere appartengono a rotte più generali che in certo qual modo ne hanno determinato l’orientamento.
Non si tratta tanto di negare l’autorialità, come viene salmodiato secondo una certa stereotipia critica, quanto di risalire alle condizioni in cui nascono certe esperienze, condizioni che gli artisti più avveduti sanno riconoscere in sé stessi, quando hanno la lucidità di sondare le proprie fonti. Le tre mostre, Maria Helena Vieira da Silva alla Peggy Guggenheim Collection e alla Pinault Collection quelle di Thomas Schütte a Punta della Dogana e di Tatiana Trouvé a Palazzo Grassi, non sono quindi solo le mostre di tre artisti ma sono il segno di tre diverse condizioni storiche che andremo a confrontare e forse a collegare, dato che le rotte sono tante ma il Globo dopotutto è uno.

Maria Helena Vieira da Silva, portoghese, nata in una famiglia benestante nel 1908 (quando Picasso è nel pieno dell’innovazione Cubista) si è formata sotto illustri insegnanti prima in scultura e poi in pittura a Parigi, praticando un rigoroso apprendistato accademico. Il giovanile studio dettagliato del disegno delle ossa dello scheletro costituisce parte delle basi di quella sorta di alfabeto strutturale che incardinerà le sue aperture spaziali. Ha fatto viaggi d’arte decisivi in Italia dove l’incontro con le prospettive di Paolo Uccello ha sollecitato i prodromi per la sua visione caleidoscopica e pluricentrica.

Per un periodo, a partire dal 1939, all’indomani dell’invasione tedesca, ha dovuto emigrare con il marito, ungherese di discendenza ebraica, e anch’esso pittore, in Brasile. Dopo la guerra ritorna in Europa dove inanella riconoscimenti e mostre prestigiose: tra le varie cose espone nei musei con i suoi maestri Roger Bissière e Germaine Richier. Nel 1956 ottiene la cittadinanza francese quando artisticamente francese lo è già da tempo essendo il suo lavoro affermatosi come un incunabolo fondamentale della seconda ondata della cosiddetta Scuola di Parigi: Bissière appunto, ma anche Jean Bazaine, Alfred Manessier, Maurice Estève ed altri. Rifiuterà di esporre in Portogallo in opposizione al regime di Salazar. Alla fine morirà infatti proprio a Parigi, nel 1992.

Il linguaggio di Vieira da Silva riprende come altri suoi contemporanei la lezione della frantumazione Cubista traslandola in una sua versione astratta, modalità che ne contrassegna. Indubitabilmente il lavoro, pur rimanendo inconfondibile, è riccamente declinato in varie soluzioni. Unico intermezzo il figurativismo epico e gremito dei lavori realizzati nell’esilio brasiliano, dove un’umanità ancestrale, animale e vegetale, echeggia i drammi e le preoccupazioni dell’epoca. Nell’insieme della sua carriera Vieira da Silva gode dell’onda lunga della fiducia avanguardista; l’apertura inaugurata da cubisti e astrattisti all’inizio del secolo può essere continuata e modulata, senza gli intenti dirompenti di chi inizia il discorso sconquassando i precedenti.

L’approccio è rigorosamente quello dell’artista che vive una vita nel suo studio, rapita dal proprio gioco incessante di forme, una dopo l’altra. Si parte da un osso, appunto, che può diventare un elemento architettonico, una membratura in uno sfaldamento; si può astrarre gli elementi rigidi di strutture portuali e proporli come architravi in caroselli visivi. È lo stesso procedimento di Mondrian che parte da un’essenzializzazione degli elementi del paesaggio, un albero, gli ormeggi del molo, per trasfigurarli progressivamente, un tentativo dopo l’altro, in una griglia geometrica.
Con la differenza che Vieira da Silva non è così perentoria ma accoglie nei suoi appunti di strutturazione una varietà sensibile di instabilità. E rispetto alla prismatica cubista, che tende alla destrutturazione del pieno, l’uso oculato di motivi come le piastrellature e gli scaffali di biblioteche dischiude a fisarmonica spazi aperti, a tratti smaterializzati. Il riecheggiare di soluzioni personali non cade nella ripetizione e nel meccanico, anche grazie ad una certa lentezza esecutiva che stratifica e cancella. A tratti costeggia il graffitto e la gestualità esistenziale dell’Informale digerendoli nella propria grammatica. La peculiarità dei suoi stilemi adombra quasi una consapevolezza filosofica che innalza il suo lavoro dal decorativismo.
Nei saggi critici del catalogo si accenna a qualche riferimento tutelare: per Lauren Elkin la Deterritorializzazione di Deleuze e Guattari, per Flavia Frigeri “Le città Invisibili“ di Calvino, ma come non ricordare la biblioteca infinita di Borges (“La Biblioteca di Babele” è del 1941), della quale l’opera dell’artista portoghese è stata forse la miglior versione pittorica, ancor prima delle pratiche artistiche archivistiche e dell’era digitale, certamente rifuggendone gli aspetti enigmatici e angoscianti , secondo una visione ottimistica di meraviglia terrena e di fiducia nella costruzione umana.
Il carattere dell’ arte di Vieira da Silva è quindi ascrivibile ad un’idea di progressività e di varietà dell’autonomia pittorica, che discende dal lato ottimistico delle avanguardie: progressività piuttosto che progresso, dato che siamo nel campo dell’art pour l’art piuttosto che in quello della trasformazione sociale

La mostra di Thomas Schütte a Palazzo Grassi è imperniata per la gran parte sulla sua scultura figurativa e c’è solo qualche esempio delle sue opere ad ispirazione architettonica che ne caratterizzarono i debutti.
Schütte è una delle colonne dell’arte tedesca ed è presente sulla scena ai massimi livelli da oltre quarant’anni, con un dispiegamento di mezzi che è andato crescendo nel tempo, mantenendo una coerenza a tutta prova. Qua e là si dice che il suo lavoro è unico e indipendente: in realtà pur sapendosi caratterizzare con un’impronta precisa nasce in un contesto che possiamo delimitare tra anni 80 e 90, anni che lo vedono in compagnia di altri artisti a lui assimilabili.
In questo periodo, fino alla data cruciale del crollo del muro di Berlino ma quindi già prima di esso, il mondo dell’arte internazionale risente di alcune circostanze esterne che ne imprimono un repentino rivolgimento. Gli anni del cosiddetto “Ritorno alla Pittura”, durati meno di quanto si crede, sono rimpiazzati da un ritorno, opposto, a forme d’arte di matrice concettuale, da una ripresa e da una evoluzione degli approcci sperimentali delle neoavanguardie degli anni 60 e 70, rivolti a mezzi di nuovo meno “tradizionali”.

Riassumendo per sommi capi, nel 1982 la rassegna di Documenta a Kassel, affidata alla regia di Rudi Fuchs aveva dismesso gli intenti anti museali delle edizioni precedenti proponendo un ritorno all’arte figurativa sfrondata da sovrastrutture teoriche e incentrata sulla soggettività libera dell’artista. Un neo-romanticismo che attingeva alle forze sorgive e mitiche dell’interiorità, in contrapposizione agli atteggiamenti più freddi ed analitici dell’arte precedente. Dello stesso tenore furono altre importanti mostre del periodo: come la Biennale veneziana o come ”Zeitgeist” curata da Christos Joachimides e Norman Rosenthal a Berlino, entrambe nello stesso anno.
Come si diceva, causa il fattore determinante di una provvisoria crisi di quel mercato che aveva premiato in quegli anni belli un’arte da vedere e da gustare gradita al nuovo collezionismo, il clima cambiò rapidamente e, per citare solo un’esempio, nel 1987 l’ottava edizione di Documenta, diretta da Manfred Schneckenburger virava verso un’arte attenta alla realtà sociale, privilegiando installazioni ambientali e i rapporti tra arte, design ed architettura. Il discorso riprendeva i fili di un approccio legato ad un’attitudine critica e ad una progettualità che avevano contrassegnato gli intenti del Moderno novecentesco in opposizione agli anni spensierati del Post- moderno. La mostra, fin troppo guarnita di artisti ed opere fu criticata per l’approccio confuso e contraddittorio e per la scelta non rigorosa dei partecipanti, molti dei quali sono oggi infatti dimenticati.

A distanza di anni si può verificare come comunque la rassegna risultasse un sismografo, anche se imperfetto, dei tempi: Beuys era morto da poco e vi si sentiva, piuttosto che l’impegno ritrovato che si pretendeva, il peso delle delusioni subentrate ai movimenti politici degli anni sessanta e settanta sui quali le neoavanguardie si erano sintonizzate e il dichiarato interesse per le questioni sociali dava spazio ad opere ingombranti che occupavano lo spazio ma senza aprire davvero possibilità liberatorie e che sembravano in fin dei conti testimoniare di un’impasse politica di fronte ad uno scenario economico divenuto inaggirabile.
Thomas Schütte era presente all’aperto con la realizzazione in scala 1:1 di un edificio dalla struttura essenziale, pseudo-razionalista, adibito a gelateria, tipico della sua produzione legata alla realizzazione di sardoniche maquettes architettoniche .
In quegli anni Schütte non è solo a seguire la strada dell’antiromanticismo di una fredda e scettica ripresa dell’architettura e del paesaggio industriale: nella mostra di Kassel c’erano Hans Haacke, Imi Knoebel, Jean Marc Bustamante, Jan Hamilton Finlay, Alice Aycock, Bertrand Lavier, ma mancavano i suoi connazionali Förg, Mucha, Klingelhöller, Gerdes, Fritsch, Trockel ecc. Nell’attuale mostra di Palazzo Grassi dedicata a Schutte possiamo vedere i suoi primi lavori giovanili legati ancora al clima neoespressionista della pittura tedesca degli anni 80 dove la tecnica della pennellata compendiaria si rivolge ai motivi impersonali di edifici produttivi svuotati di senso. Nato nel 1954 a Oldenburg e formatosi a Düsseldorf negli anni 70 Schütte contava tra i suoi insegnanti Berndt e Hilla Becker, dal cui lavoro fotografico sugli edifici industriali non può non aver preso le prime mosse: da qui la scelta della sua creazione matura e fondamentale concentrata sull’architettura straniata, in varie scale.

I riferimenti sono rigorosi: l’architettura utopica di Bruno Taut e di Vladimir Tatlin, gli hangar funzionali di Peter Behrens. Il tutto opacizzato e reso sordo: eliminate le finestrature in vetro e sostituite con pareti opache, abbassati i varchi delle entrate, semplificando ulteriormente il semplificato. Il progetto si autoriproduce eliminando l’attore sociale. In questo frangente Schütte stabilisce le basi del suo pensiero, mette in secondo piano il lato romantico della cultura del suo paese per assestarsi nel crinale ambiguo e disincantato della discordia tra Kultur e Zivilisation propendendo per quest’ultima, tema indagato con profondità proprio ancora da autori tedeschi: Mann, Weber, Spengler, Adorno, Anders e naturalmente Heidegger. Come altri artisti menzionati la sua visione scettica e disillusa precede di diversi anni il crollo del muro di Berlino dimostrando una sensibilità lungimirante.
In contemporanea a questo versante Schütte appronta un percorso antropomorfo della tridimensionalità costeggiando la scultura classica e aprendo conseguentemente la strada a quella che attualmente è la sua produzione più conosciuta, con esemplari spesso di grandi dimensioni e presenti in forze, come già accennato, nella retrospettiva a Punta della Dogana. Il tema degli uomini con i piedi invischiati nel fango risale già ai primi anni ottanta con piccole statuette di cera che oggi hanno assunto dimensioni che seppure considerevoli suonano come antimonumentali, dato il processo di deformazione e stravolgimento antieroico a cui sono sottoposte le figure.

Se il precedente pittorico dei “Grandi amici” di Baselitz o il Mozart scultoreo di Lüpertz sono annoverabili come esemplari derivanti da un espressionismo primario, nelle sculture di Schütte si registra uno spostamento verso un disumanesimo che non si può non sospettare sia poco nostalgico o comunque consapevole di una condizione forzatamente non nostalgica. L’impressione è ovviamente rinforzata dagli enormi rudimentali uomini robot che sembrano strutturati come anatomie a trivella o dai mostri caricaturali da Guerre Stellari ironicamente appoggiati su improbabili trespoli o dalle grosse teste disindividualizzate, sole o a colloquio tra di loro o appollaiate alle pareti come in un lugubre cenotafio.
“Vater Stat” (2010) e ”Mutter Erde”(2024) sembrano invece rappresentare divinità di qualche inquietante tirannia soprannaturale. Coerentemente con le sue architetture Schütte dibosca le sue sculture di fronzoli e aneddoti senza cura di indorare la pillola: va diretto alla questione. Quando si citano troppi riferimenti, personaggi, fatti, sinceramente se ne potrebbe fare a meno dato che non si vedono. Ogni tanto caracolla verso la tradizione e si confronta con le sculture di Matisse e di Arp o con i vetri di Murano: ma sono dei divertissements, quello che aveva da dire l’ha detto. E purtroppo con una certa ragione. L’arte tedesca non abbellisce ed è il suo merito.

Thomas Schütte parte dall’esperienza neoespressionista degli artisti tedeschi della generazione precedente , e tenendo conto degli sviluppi di un documentarismo cinico e impersonale della fotografia si rivolge alle tematiche post romantiche , spesso apocalittiche, spesso pessimistiche , per affermare una visione di ambiguo disincanto sul mondo attuale dominato dalla ragione strumentale e sul quale , sembra suggerire, non possiamo farci molte illusioni; il che da un punto di vista artistico implica la consapevolezza della crisi dei progetti in senso emancipativo delle avanguardie

La mostra di Tatiana Trouvè a Palazzo Grassi testimonia la carriera di un’artista nata nel 1968 a Cosenza, cresciuta a Dakar in Senegal e dai diciassette anni formatasi in Francia, poi nei Paesi Bassi e dal 1995 residente a Parigi fino a che si è stabilita a Montreuil. Le sue opere sono state esposte e sono presenti nei maggiori musei francesi e in diversi musei di altre nazioni, oltre che ovviamente nella Collezione Pinault. È supportata da una delle più grandi gallerie del mondo. Il suo indiscutibile talento scenografico e grafico si applica ad un tema che nella sua coniazione originale rifuggeva artifici scenografici e grafici attingendo direttamente alla realtà concreta, senza intermediazioni.

Il tema della ricerca di una contiguità tra Arte e Vita si può far risalire al Romanticismo ma per quel che interessa in questo caso, i precedenti più congrui vanno cercati nelle prime e nelle seconde avanguardie del novecento dove abbiamo assistito ad un deciso rifiuto dei mezzi di rappresentazione a cui la storia dell’arte ci aveva reso avvezzi. Più che all’object trouvè duchampiano, che è più mentale e che nelle sue opere maggiori è estremamente artefatto ed escogitato, partirei dall’opera di Kurt Schwitters che nella prima metà del secolo è uno dei principali autori di un’opera che assemblando lacerti di ogni tipo provenienti dal quotidiano si modifica e cresce non distinguendosi dal tempo vissuto.
Sintetizzando all’estremo potremmo dire che tra anni 50 e 60 ad ereditare questa tradizione sono stati gli artisti del movimento Fluxus e del Nouveau Rèalisme: le tavole imbandite del rumeno naturalizzato svizzero Daniel Spoerri, rimasugli di serate conviviali incollate sul piano e appese alle pareti come opere, ne sono tra le più vive manifestazioni, oltre che a costituire l’epilogo vitalistico della classica natura morta. Contemporaneamente e successivamente a queste esperienze molti altri artisti hanno seguito questa via dell’annullamento dei confini tra arte e vita, contestando ogni forma di intermediazione alla ricerca di un’autenticità esistenziale che per un periodo entusiasmante è sembrato rispondere alla necessità di una vita liberata ma che poi, sempre di più negli ultimi anni, è sembrata troppo spesso arenarsi in biografismi sensazionalistici o in accademiche esercitazioni narcisistiche.

Consapevole dell’usura di certe pratiche artistiche, destinate inevitabilmente a compromettersi entrando nelle modalità espositive istituzionali, Tatiana Trouvè le riprende raddoppiandole tramite la propria competenza illusionistica. Simula l’installazione con oggetti reali, dalla pietra fino all’arancia sbucciata, ma in realtà si tratta di calchi brillantemente dipinti e contraffatti. Invece di consegnarsi alla provvisorietà del reale organizza nel suo studio un deposito di calchi di ogni genere di cose e di oggetti come un repertorio pronto per l’uso o foriero di chissà che combinazioni. Usa cose transitorie e casuali come lettere di un alfabeto con cui assemblare dei coacervi ben disposti. La sua idea forse più nota sta nella distesa di coperture per tombini incastonata nell’asfalto e visibile al piano d’ingresso.

L’operazione è godibile, non si può non ammirarne l’ingegnosità da scenografi pre -digitali, sul tipo delle montagne di cartone iperreali per i fondali dei vecchi film e tutto il primo piano è costellato di lavori di questo tipo, frutto a quanto si capisce dell’apporto di vari collaboratori. Si tratta di manufatti complessi e tutt’altro che esigui. Schwitters aveva impegnato diversi anni per tappezzare la sua Merzbau, ma qui si assemblano diverse installazioni all’anno. Ci sono due rilevazioni da fare: la prima è il rifiuto dell’organicità che era invece l’ingrediente essenziale dell’Arte – Vita: a contrario delle foto di Wols, dei “resti” di Dieter Roth , delle deiezioni e dei liquidi biologici degli artisti viennesi, in Tatiana Trouvè l’aspetto crudamente materiale della vita è accuratamente evitato in vista di una replica di cose in definitiva tutte innocue e carine.
Si potrebbe ribaltare l’obiezione in senso positivo e dire che la cosiddetta estetica dell’abbietto era andata fin troppo oltre e che è venuta l’ora di una rivalutazione dello studio – laboratorio dove l’artista ritorna non per trovare un’autenticità irraggiungibile ma la felicità di un artigianato che ritorna a sfoderare manufatti avvincenti. La voglia di superare la brutalità dell’oggetto nudo e crudo è ad esempio evidente nella grande installazione “The Great Atlas od Disorientation” dove si immagina un ritrovamento di un albo tridimensionale che registra tracce e immagini di ere lontane e future.

Il secondo piano della mostra è maggiormente dedicato alla parte grafica dell’attività dell’artista che consiste in bellissimi disegni su grandi carte: le referenze derivano da immagini fotografiche di vari soggetti , spesso installazioni predisposte dall’autrice , trattate prima al computer con vari effetti di Photoshop che hanno sostituito le vecchie “solarizzazioni” fotografiche, dove mescola spesso in trasparenza anche altre foto, di pennellate o chiazze di vernice, e alla fine proietta il tutto sulle carte tratteggiandolo poi meticolosamente a matita. Il tutto è quasi sempre bello, niente da dire, ma si ha l’impressione di una serie di espedienti che per quanto ben gestiti non si ricollegano a nulla di effettivo fuori di essi. L’effetto da prospettive aeree rischia di suonare stucchevole.

La seconda obiezione infatti è: perché riprendere in modo differito la tematica dell’Arte – Vita quando nella sala degli oggetti contrassegnati dal nome della località in cui sono stati trovati
potremmo dispettosamente spostare a caso le etichette senza che nulla cambi? C’è qualcosa che davvero in questi calchi ci dica qualcosa del mondo della vita da dove provengono, se la loro provenienza potrebbe essere facilmente intercambiabile? È davvero il mondo dei piccoli oggetti insignificanti ed effimeri è più autentico di un mondo che si occupa di cose non sublimate, di fatti pubblici e oggettivi, di economia, di politica ecc. ?