
Oggi Il Sole allo Zenit ci porta in viaggio nel lato forse meno romantico ma più avvincente del sistema, dove il genio si misura in contratti, bluff e colpi di scena. Perché l’arte è business, e i suoi veri protagonisti a volte stanno dalla parte del denaro
Diversi critici o galleristi hanno cercato prima di essere artisti. Penso a Arne Glimcher, a Francesco Bonami o Konrad Fischer, per esempio. Konrad aveva studiato pittura a Düsseldorf in Accademia ed ebbe la sua prima mostra alla Schmela Haus ma, per sua stessa ammissione, produsse arte non importante quindi smise. Alfred Schmela, che era pure un artista, disse a Konrad che sarebbe stato un grande dealer più che un buon pittore. E se il Fischer autore non fu granché a quanto pare, come gallerista ebbe il merito di proporre per primo quell’arte Minimale che l’Europa del tempo ignorava del tutto. Partì con l’innovativa idea di inviare biglietti aerei aperti agli artisti, primo fra tutti Carl Andre, che accettò l’invito e lo raggiunse: era il novembre del 1967 e dopo di lui volarono in Germania Sol LeWitt, Donald Judd, Fred Sandback eccètera. Ma smettere i panni dell’artista per passare dall’altra parte della barricata non ritengo affatto che sia un declassamento o una squalifica. L’artista propone infatti una nuova ricerca al mondo sotto il suo personalissimo punto di vista ma, stando a quanto scrisse Matisse un anno prima di morire, “per un vero pittore nulla è più difficile che dipingere una rosa perchè per poterlo fare serve dimenticare tutte le rose che sono state dipinte prima”. Il mercante o il gallerista ha invece una conoscenza generale e deve tener d’occhio la completa situazione, con tutto quello che è successo o che succede. Sarà per la brama d’irraggiungibile conoscenza enciclopedica che io ho sempre ammirato quasi più i mercanti che gli autori, e non ho mai avuto velleità di creazione in campo pittorico. Per questo motivo ho ascoltato con famelica attenzione gli aneddoti dei miei illustri colleghi e ho accumulato dozzine di loro biografie dalle quali ho appreso un’infinità di episodi curiosi. Grazie a Luciano Pistoi, ad esempio, ho scoperto che Burri aveva un occhio così infallibile da riuscire a vedere quadri di pochi millimetri storti a decine di metri, che Picasso firmò una sigaretta Gitanes con uno stilografica riuscendo nell’epica impresa di non commettere sbavatura alcuna e che quando Lucio Fontana vide il famoso barattolo di Piero Manzoni contenente una linea disse: “Ecco, mi ha fregato, è andato più avanti del sottoscritto!”.

Da Ambroise Vollard sappiamo che nel 1890 si mise in proprio e che nel 1893 aprì il suo locale nella via delle gallerie, in rue Laffitte, con una mostra dei disegni di Manet ottenuti dalla moglie e che poco dopo recuperò anche parte della raccolta di père Tanguy, vecchio negoziante di colori e sostenitore degli artisti più giovani, tramite un’asta fortunata organizzata dalla vedova. Per mezzo di un accorto e spietato gioco a ribasso dei mercanti presenti in sala, Vollard li comprò tutti al minimo, tra i 30 e i 200 franchi, e ci risulta che all’inizio di giugno 1894 possedeva ben 6 quadri di Cézanne, un Van Gogh, un Gauguin e un Pissarro, e che solo per il Cézanne, già ad agosto, la richiesta era di 800. Del resto è noto il suo senso degli affari così come l’amore per i suoi ritratti eseguiti da svariati artisti: Renoir, Rouault, Bonnard, Forain, Cézanne, Denis, Dufy, Picasso. Solo tramite queste opere ancora ce lo ricordiamo, da quando il 21 luglio 1939 la sua automobile guidata dall’autista sbandò e uscì di strada. Vollard, che come al solito dormiva sul sedile posteriore, morì sbattendo il capo contro una piccola scultura di Maillol posta nel baule.

Heinz Berggruen invece ci fa sapere che era molto emozionato quando all’asta, con i figli presenti in sala, si aggiudicò il Grande Nudo Sdraiato di Picasso del 1942 che ritrae Dora Maar giacente su una lugubre brandina di prigione, e io posso capirlo bene. Di Picasso poi ci tramanda che era un modesto viaggiatore, che detestava le inaugurazioni delle mostre e che era soddisfatto di aver adottato il cognome della madre perchè lo attraeva la doppia S, che nella lingua spagnola compariva di rado e che lo accomunava ai nomi di altri artisti quali Poussin, Matisse e Rousseau il Doganiere.
Théodore Duret ci ha raccontato invece di aver conosciuto Manet a Madrid, dove l’artista era fuggito per dimenticare le critiche scatenate dalla sua Olympia al Salon di Paris: visitarono insieme il Prado e si appassionarono a Velázquez all’unisono. Mentre da Daniel-Henry Kahnweiler ho appreso che Braque visitò l’atelier di Picasso grazie ad Apollinaire e che dopo aver visto Les Demoiselles d’Avignon subì uno choc dal quale si riprese solo diverse settimane successive. Rientrando nel suo atelier cominciò a dipingere il Grande Nudo, il suo primo ritratto di donna in verticale, palesemente ispirato alla visione di quell’opera fondamentale.

Ma Il re di tutti gli antiquari, come sottotitola un libro illuminante di S.N. Behrman, uscito per Sellerio in Italia, si chiamava Joseph Duveen. Fu “il più spettacolare mercante d’arte di tutti i tempi”, con tre gallerie a Parigi, New York e Londra, tanto importante da divenire un giorno Lord Duveen di Millbank. Capì prima di tutti che l’Europa aveva l’arte e l’America il denaro, e riuscì a farsi clienti come J.P. Morgan, Henry Clay Frick, Mellon e John D. Rockefeller junior. Ai suoi compratori facoltosi garantiva posti in albergo o navi già al completo e trovava loro persino le case e l’architetto che le progettava, costruendo grandi pareti per lasciar spazio ai suoi dipinti preziosi. Accumulava per loro scorte dei sigari preferiti nei sotterranei delle sue sedi, criticava le opere che vendevano i concorrenti, pagava i portieri degli alberghi più costosi per sapere chi alloggiava nelle suite migliori e sborsava cifre altissime per acquistare i suoi quadri in modo da rivenderli a prezzi ancor più alti. E ancora: fece deprezzare i lavori della scuola di Barbizon invogliando i malcapitati proprietari a voler altri autori come gli antichi Maestri che comprò lui in anticipo, quando ancora la maggior parte dei suoi acquirenti americani non sapeva nemmeno chi fossero. Era costantemente coinvolto in cause legali, aveva un’incredibile biblioteca nella quale teneva libri rari ai quali strappava le pagine che gli servivano, mostrava ai suoi clienti multimilionari che lui viveva meglio di loro, sottrasse a Frick La Passeggiata in St. James’s Park di Thomas Gainsborough comprandola da un mercante rivale per poi rivendergliela allo stesso prezzo solo per essere lui a chiudere il cerchio. Fumava una sigaretta dietro l’altra, era un instancabile viaggiatore e un vero buongustaio, contrario al risparmio perchè era convinto che l’arte contasse più del denaro. Continuò a vendere quadri fino al suo ultimo giorno e fece in modo che alcuni dei suoi più grandi collezionisti lasciassero le loro opere in donazione contribuendo a formare la National Gallery di Washington, garantendo loro – e a sé stesso – l’immortalità e un futuro. Insomma, tagliando la barba al profeta, io ho so che l’acquisto prova il vero interesse, che il venditore d’arte è il consigliere del principe e che, seguendo il mito di Joseph Duveen, ho sempre voluto essere un gallerista-mercante, anche se nel cognome ho la doppia S.

Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano), curatore (Settantaventidue, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni.














