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L’osservatorio del presente. Donne al museo

WANGECHI MUTU Suspended Playtime , 2012 Garbage bags and twine Dimensions variable Installation View at the Staatliche Kunsthalle Baden - Baden, Germany Courtesy of the Artist and Gladstone Gallery
WANGECHI MUTU, Suspended Playtime, 2012, Garbage bags and twine, Dimensions variable, Installation View at the Staatliche Kunsthalle Baden-Baden, Germany, Courtesy of the Artist and Gladstone Gallery
Ho scelto di muovermi dentro un luogo storico come la Galleria Borghese come all’interno di un qualcosa a metà strada tra la capoeira e un rito, sempre in uno stato di flusso”. Così Wangechi Mutu (1972), la prima artista donna vivente a dialogare con la Galleria Borghese, ha definito l’attitudine che l’ha portata a realizzare Poemi della Terra Nera, la sua mostra personale nel museo romano, curata da Cloe Perrone e aperta fino al 14 settembre. Keniota di origine ma americana di adozione, Mutu ha immaginato un percorso espositivo articolato, che parte dalla Galleria e coinvolge anche il giardino all’italiana, con una serie di opere di notevole impatto, che si confrontano con un mondo di artisti uomini italiani, da Caravaggio a Bernini fino a Canova.

Il mito coltiva empatia, coraggio, delicatezza” dice l’artista, e con questa delicatezza ha immaginato una silenziosa sfida all’arte barocca, alla sontuosità dei materiali, all’immaginario mitologico classico: leggerezza vs pesantezza, bronzo vs marmo, metamorfosi vs staticità. Dal proprio punto di vista, Mutu rilegge e reinterpreta la storia della Galleria Borghese con opere di grande impatto come Prayers, una collana di sfere sospesa al soffitto nella Sala degli Imperatori, sopra Il Ratto di Proserpina di Bernini, oppure Grains of Words, il testo scritto con lettere di caffè e tè. Tratto dalla canzone War di Bob Marley, è posizionato sopra uno dei mosaici romani dell’atrio ed è ispirato all’ultimo imperatore d’Etiopia Haile Selassie (1930-1974), figura chiave dei movimenti anticolonialisti.

WANGECHI MUTU, Nyoka, 2022, Bronze, 81 3/4 x 73 x 45 1/2 in, Edition of 3, Courtesy of the Artist and Gladstone Gallery

La mostra prosegue al primo piano, nel Salone Lanfranco, occupato dall’installazione Suspended Playtime sospesa al soffitto. Si tratta di una delle opere più forti e poetiche dell’intera mostra, che rimanda ai palloni da calcio realizzati con materiali di scarto dai bambini africani, in grado di entrare in un interessante dialogo perfetto con le figure mitologiche affrescate sulla volta. Nei giardini Mutu ha allestito alcune sculture in bronzo, che si inseriscono perfettamente nelle geometrie vegetali del luogo. Sulla terrazza si staglia la sagoma scura di Water Woman, una sirena che trasforma con un’estetica black le sfingi che adornano i giardini neoclassici, ripresa dalle due sculture della serie The Seated, collocate ai lati dello scalone in facciata. In fondo al giardino Mutu ha collocato una cesta in bronzo con un grosso serpente acciambellato, quasi a indicare la forza della natura selvaggia in contrasto con la flora addomesticata del giardino, mentre sul lato destro dell’edificio si può ammirare The End of Eating Everything, un video denso di riferimenti al mondo fantasy, forse l’opera meno riuscita della rassegna, che suggerisce una riflessione sul dialogo tra le culture, in un’ottica globale alla quale il nostro paese deve ancora abituarsi.

Tomaso Binga, Vista zero, 1972–2020. Courtesy Archivio Tomaso Binga e Galleria Tiziana Di Caro, Napoli

Dall’Africa all’Italia, da Roma a Napoli, dove Tomaso Binga, artista italiana nata nel 1931, è la protagonista di Euforia, la sua prima antologica museale, curata da Eva Fabbris con Daria Khan al Madre. Si tratta di una rassegna che riunisce 120 opere realizzate nell’arco di quarant’anni di carriera, impreziosita da un allestimento minimalista ma innovativo, progettato dallo studio Rio Grande con tubolari colorati. Legata alla poesia visiva, all’arte concettuale e al femminismo, l’artista (nata Bianca Pucciarelli Menna) decide di assumere il nome d’arte di Tomaso Binga nel 1971, per evidenziare i privilegi dell’uomo anche nel campo culturale.

Tomaso Binga, Io sono io. Io sono me, 1977. Courtesy Archivio Tomaso Binga e Frittelli Arte Contemporanea

In arte, sesso, età, nazionalità non dovrebbero essere delle discriminanti. L’Artista non è un uomo o una donna ma una PERSONA” dichiara Binga, e struttura la sua pratica artistica in questa direzione, attraverso opere come poesie visive, installazioni, fotografie, collage, documenti e performance. Una ricerca documentata con rigore e precisione nelle sale del Madre. Dalla serie dell’Alfabetiere Murale al Confessore Elettronico, dai primi Disegni astratti ai Polistiroli fino alle installazioni ambientali come Io sono una carta, la mostra restituisce il filo rosso del pensiero e della pratica di Binga: la parola come gesto, il gesto come dichiarazione di sé, il sé come spazio di lotta. Di grande pregio il libro catalogo, curato da Eva Fabbris, Lilou Vidal e Stefania Zuliani e pubblicato da Lenz, che restituisce la complessità di una figura fondamentale per la storia dell’arte al femminile in Italia.

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