
Per il secondo anno il Lerici Music Festival si apre all’arte contemporanea, portando a Villa Marigola una personale di Arcangelo Sassolino. L’abbiamo ascoltata (esatto, proprio ascoltata) per voi.
D’un tratto Piccolo Animismo si mette a funzionare, provocando un boato forte. Molto forte. È esattamente come pensate: il nostro primo approccio con le Fratture armoniche di Arcangelo Sassolino (Montecchio Maggiore, 1967) a Villa Marigola, in occasione della nona edizione del Lerici Music Festival (diretto da Gianluca Marcianò col tema “musica, immagine, movimento”), è stato col botto. O all’insegna del canto per dirla alla Carlo Orsini, curatore della mostra, secondo cui «Tutte le opere di Sassolino cantano».
Non prima di aver ricordato che Orsini, insieme a Carlotta Sorba, animerà nell’ambito del Festival un ciclo di conversazioni “informali” con i protagonisti del contemporaneo (Conversazioni a colazione rende sicuramente l’idea del grado d’informalità di cui si parla), forniamo quindi una descrizione quanto più veritiera di Piccolo animismo chez Villa Marigola: immaginate di vedere abbandonato sulla ghiaia di un elegante giardino un grosso container d’acciaio, le cui pareti si flettono espirando e aspirando aria. E che così facendo provocano una serie di boati che poco si conciliano con l’amenità del contesto. Il tutto potrebbe avere anche dei difetti, ma qualora ci fossero, a noi evidentemente sono sfuggiti.

«Fare una mostra e cercare di attirare l’attenzione è già una sfida» dice Orsini riferendosi all’interno carico della villa, ma anche a quel meraviglioso esempio di parterre all’italiana che si vede dalle finestre. Sottoscriviamo, perlomeno per quanto riguarda l’esterno, comprensivo anche una vista sul Golfo dei poeti che “che ve lo diciamo a fare”. Sull’interno siamo meno indulgenti, forse perché anni e anni di contesti d’antan bonariamente “profanati” dall’arte contemporanea hanno smesso d’impressionarci, e/o sembrarci una sfida in termini di display visivo. Vero è, e va detto, che l’opera di Sassolino è piuttosto radicale nel suo destreggiarsi tra oggettuale e concettuale. Oggettuale e concettuale che l’artista mette insieme con un senso poverista per la materia, un senso processuale per la scultura e un un senso tutto suo che procediamo a illustrare.

archive n. AS-2025-019. photo: Pamela Randon
Quel senso tutto suo lo si intuisce attraverso due concetti espressi dall’artista vicentino, fondamentali per capire il suo lavoro: «Mi piace che ci sia una tensione reale nella scultura» e, sempre in riferimento a quest’ultima, «Prima che diventi metafora, mi interessa che sia essa stessa soggetto». Dalla prima frase è chiaro come la scultura secondo Sassolino non sia una certezza assoluta, piuttosto un sistema di forze espresse, che finché saranno uguali e contrarie daranno esistenza alla scultura stessa: un morsetto (verde brillante, non proprio un dettaglio se la sua funzione sarà altra da quella per cui è stato concepito) che stringe una risma di carta appoggiata su un ripiano non è un’opera in sé, ma lo è solo in virtù della forza che il morsetto stesso applica nel comprimere la carta. Questa è Resistenza bianca. Stesso discorso vale per le lastre di marmo sospese di Geografia del conflitto, tenute assieme anch’esse da un morsetto, con l’aggiunta che in questo caso si palesa il Sassolino-pensiero di una scultura “soggetto” prima che “metafora”. Una scultura esistente di per sé prima che portatrice di messaggi più o meno diretti o latenti, anche perché siamo dell’idea che l’opera di Sassolino sia tra le migliori su piazza nel funzionare in aperta visione/percezione, stile macchie di Rorschach tanto per dare l’idea. Il paradosso è, semmai, arrivare a dire ciò al netto dell’utilizzo di oggetti che di per sé poco lascerebbero all’immaginazione.

Poco all’immaginazione, in effetti, potrebbe lasciare quel martinetto idraulico al centro del salone, a cui è connesso un ciocco di legno tramite corde d’acciaio. Il martinetto inizia a funzionare, il ciocco di legno a spezzarsi tra un crescendo di scricchiolii («Io lo chiamo canto» dice Sassolino: chi meglio di lui in un festival di musica): ciò a cui assistiamo è tanto estraneo ad un contesto di marmi, cristalli e passamanerie, quanto sassolinianamente esemplificativo di un’arte che può essere processo senza essere direttamente prodotto, soprattutto decorativo. Un’arte che, qualora si vada a configurare senza mezzi termini come prodotto, è comunque effetto ultimo di una pressione bloccata, di un tempo preciso, come l’istante in cui la cera tocca la carta nella serie Azione/reazione. E certo, coi suoi schizzi tutta la serie a molti potrebbe ricordare una gestualità affine all’Action painting, ma citare questa come referenza assoluta equivarrebbe a banalizzare il lavoro di Sassolino: andatevi a cercare un troppo poco ricordato Angelo Brescianini e i suoi colpi di pistola su metallo, scoprirete una sintonia d’intenti e risultati decisamente più netta.














