
Quando si pensa alle Demoiselles d’Avignon si collega subito il cubismo, le maschere tribali, l’arte africana. Ma forse da oggi, non più. O meglio, non solo.
L’autoproclamatosi “detective dell’arte” Alain Moreau riaccende un dibattito secolare con una nuova teoria che punta il dito altrove: non verso la Costa d’Avorio o il Congo, ma verso gli affreschi medievali delle chiese catalane. Una svolta audace che trova parziale appoggio anche nell’interpretazione storica di Alfred Barr, storico curatore del MoMA. Ma attenzione: a contrastarla, si alza compatta la voce degli storici dell’arte, pronti a smontare, pezzo dopo pezzo, questa rilettura, armati di una solida batteria di prove e contesti.
Moreau, collezionista francese appassionato e instancabile ricercatore, sostiene che l’ispirazione per fisionomie delle Demoiselles non venga dall’Africa, bensì dalle pitture romaniche della Catalogna, in particolare da affreschi oggi perduti della chiesa di La Vella de Sant Cristòfol a Campdevànol e da quelli di Sant Martí de Fenollar. A suo dire, Picasso li avrebbe potuti vedere durante un viaggio in Spagna nell’estate del 1906.

La sua tesi si basa su confronti visivi tra i volti dei santi medievali e le deformazioni radicali introdotte dal pittore nel dipinto. E va oltre: Moreau contesta anche l’autenticità cronologica di una delle maschere africane esposte accanto al quadro nel 1939 al MoMA (scagliandosi quindi contro Barr), sostenendo che sia arrivata in Europa solo dopo il 1935. Una tempistica che, secondo lui, scagionerebbe del tutto le influenze africane.

Ma la comunità accademica non ci sta. Suzanne Blier, docente ad Harvard e una delle massime esperte del periodo picassiano, invita però alla cautela. Ridurre l’origine delle Demoiselles a una singola fonte sarebbe, secondo lei, una semplificazione pericolosa. “Picasso era un ribelle culturale, costantemente in cerca di nuove visioni. Non c’è mai stata una sola influenza. Parlare solo di arte catalana è come guardare il cielo con un occhio chiuso”. Blier ribadisce che l’artista spagnolo era profondamente affascinato da ciò che l’Europa coloniale aveva etichettato come arte primitiva, e che le maschere africane – come quella del popolo Vili, appartenuta a Matisse – ebbero un ruolo chiave nella sua trasformazione stilistica. Nei suoi taccuini, infatti, non mancano riferimenti a statuette, totem e figure rituali di varie culture.
Più che un caso da risolvere in bianco e nero, quello delle Demoiselles si rivela un affascinante enigma a tinte multiple. Per alcuni, è l’eco delle grotte preistoriche. Per altri, l’influenza delle antiche sculture iberiche. E ancora: Giotto, Cézanne, Matisse ecc… Un caleidoscopio visivo da cui Picasso ha attinto senza sosta, con lo spirito famelico di chi guarda il mondo come un archivio da reinventare.
Insomma, anche se le affermazioni di Moreau sollevano interrogativi stimolanti, sembrano più un nuovo tassello che una riscrittura definitiva. Per ora, le Demoiselles d’Avignon continuano a essere ciò che sono sempre state: una sfida aperta al nostro modo di vedere, interpretare e raccontare l’arte.













