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Arte: dove si immagina l’impensabile o dove si nasconde l’indicibile?

Penzo+Fiore, Diary Study, ongoing project 2009-2025
Penzo+Fiore, Diary Study, ongoing project 2009-2025
Mentre le bombe cadono e l’occupazione avanza su Gaza e i bambini muoiono a decine ogni giorno, il mondo dell’arte resta in silenzio. Un silenzio che pesa più del piombo, più del vetro rotto, più delle macerie. Un silenzio che non è distrazione, ma scelta. Calcolo. Strategia.

Nel 2025, più di duecento artisti italiani — tra cui Maurizio Cattelan, Michelangelo Pistoletto, Enzo Cucchi, Emilio Isgrò — hanno firmato una lettera indirizzata al governo per chiedere la riduzione dell’IVA sulle opere d’arte. Una mobilitazione ampia, decisa, trasversale. Nomi, cognomi, sigle. La rivendicazione è chiara: l’arte è un bene culturale, non un prodotto da tassare come un elettrodomestico.
E infatti protestano. Protestano davvero. Ad Arte Fiera sfilano con i fischietti al collo, badge colorati, cartelli plastificati. Alcuni oscurano le opere con teli bianchi, altri distribuiscono volantini, altri ancora intonano un minuto di rumore. Fischiano, con disciplina. Una coreografia dell’indignazione fiscale, composta e civile, ma fragorosamente autoreferenziale. È la versione contemporanea della marcia su Roma dell’arte: l’occupazione simbolica del corridoio fieristico.
Si fischia per l’IVA, ma non si emette un suono per Gaza.
Si organizza una protesta per i margini di profitto, ma non una parola per i bambini bruciati vivi nei campi profughi. L’arte, quella riconosciuta, quella visibile, quella di sistema, difende la propria fiscalità ma non la propria umanità.
La sproporzione è insopportabile. Eppure, perfettamente logica.
Il silenzio, oggi, è parte integrante dell’economia culturale. Serve a non urtare. Serve a rimanere dentro. A non essere “divisivi”. Esporsi — soprattutto su Gaza — significa mettersi in discussione dentro un ecosistema che si regge su finanziamenti, inviti, acquisizioni, riconoscimenti.

Penzo+Fiore, Diary Study, ongoing project 2009-2025

E chi ha potere in questo sistema?
Il collezionismo ebraico internazionale, in particolare statunitense, è da decenni una colonna portante del mercato dell’arte contemporanea. Fondazioni, musei privati, board direttivi, fiere globali: gran parte della struttura simbolica e finanziaria del sistema dell’arte è direttamente o indirettamente connessa a questi circuiti. La critica aperta alle politiche del governo israeliano — anche quando fondata, anche quando documentata — viene spesso interpretata come una presa di posizione contro il popolo ebraico. E in un contesto dove ogni parola può diventare moneta o condanna, il silenzio è l’investimento più sicuro.
Meglio evitare. Meglio parlare di sostenibilità, di inclusione, di emozioni post-pandemiche. Meglio fare mostra di dolore astratto, che non puzzi di guerra vera.
Perché la guerra vera è troppo reale per il white cube.
Perché i cadaveri dei bambini non entrano nei protocolli curatoriali.
Perché Gaza non si può collezionare.
Una parte consistente dell’arte contemporanea ha smesso da tempo di essere conflittuale. È diventata diplomatica, contrattuale, impiegata. Vive di equilibri fragili, di compromessi, di alleanze istituzionali. È addestrata a non disturbare, a non contraddire, a non dividere. È l’arte che si piega — e che spesso si compiace nel farlo. L’arte che fischia, ma solo quando è fiscalmente legittimo.

Penzo+Fiore, Sabbia, performance con biglie di vetro realizzate dagli artisti, Corpi sul Palco a Sottomarina 2.0, 2025

Intanto, nel resto del mondo, qualcosa si muove. Nascono collettivi come Art Not Genocide Alliance, che chiedono la sospensione del padiglione israeliano alla Biennale. O come Artists4Ceasefire, firmato da migliaia di personalità della cultura internazionale, da Nan Goldin a Brian Eno, da Jim Jarmusch ai Massive Attack.
Voci che scelgono di non tacere. Voci che pagano un prezzo, ma non con la propria dignità. Voci più dello spettacolo che di artisti.
L’arte dovrebbe essere il luogo dove si immagina l’impensabile. Invece è diventata il luogo dove si nasconde l’indicibile. Dove la morte dei bambini palestinesi non entra, perché non conviene, perché non si vende, perché non si dimentica in tempo per la prossima call.
Il mondo dell’arte si chiede spesso cosa lo renda ancora necessario.
La risposta potrebbe stare anche qui: nella capacità — o nell’incapacità — di guardare in faccia la realtà, senza filtri, senza ambiguità, senza paura.
Ma forse è più comodo restare zitti, perché, si sa, il silenzio vale oro.

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