
Questa nuova puntata della rubrica Photofinish vede protagonista Gilli, artista attivo con il mezzo fotografico dagli anni ottanta del secolo scorso
In questa puntata potrete godervi una bella intervista con Luca Gilli, che ci racconta del suo percorso nella fotografia, che lui stesso definisce “un’esigenza fisica e mentale, ma anche una relazione d’amore con la realtà e con la vita in tutte le declinazioni”. Le immagini dell’artista, delicate, pacate, tendono a rendere straordinario l’ordinario attraverso un meticoloso studio che passa attraverso tutte le fasi di realizzazione dell’opera: atmosfere metafisiche rese attraverso giochi di luce. Al centro la natura, vista come madre sacra e universale, il cui sentire da parte del fotografo si riflette in tutti i soggetti ripresi.
Quando hai iniziato a dedicarti alla fotografia e hai poi deciso di intraprendere questo percorso? Cosa rappresenta per te la fotografia?
Ho iniziato a praticare la fotografia con una certa sistematicità sul finire degli anni ottanta del secolo scorso per documentare aspetti delle ricerche scientifiche che conducevo in natura e in laboratorio per conto dell’Università di Parma e di altri enti. In particolare in quel periodo ero impegnato nella tutela di un fragile ambiente umido residuale di pianura sul quale avevo anche iniziato una estesa ricerca ecologica e faunistica poi pubblicata dalla Regione Emilia-Romagna. Negli anni seguenti ho vissuto un crescente “divagamento creativo”, sia in natura che altrove, con radici sempre ben piantate nella realtà, ma con più di un ramo proteso verso l’astrazione e una certa trasfigurazione, che da sempre mi seduce. Se non ricordo male, è nella prima decade degli anni duemila che il mio percorso fotografico è diventato più consapevole e totalizzante.
Cosa rappresenti per me la fotografia non lo so dire con precisione. Di certo, ancora oggi, è un’esigenza fisica e mentale, ma anche una bella responsabilità, è una relazione d’amore con la realtà e con la vita in tutte le declinazioni. Dovrebbe anche essere un mezzo per consegnare al tempo dei segni potenzialmente fertili per me e per gli altri. Quando stampo delle foto o concludo serie, l’immediato auspicio ideale che mi ripeto sempre è che possano diventare dei luoghi partecipati a tutti gli effetti. Chissà, forse qualche volta accade veramente.

Quindi, tramite la fotografia cerco l’incontro, la relazione, l’esposizione al mondo, cerco di esplorare con una certa “semplicità euristica” la complessità attuale, soprattutto nell’ordinario, per approdare a sintesi poetiche, ma anche documentali, che mi corrispondano e risultino in qualche misura accessibili, attive e rilevanti rispetto a contesti più ampi e generali.
Poiché le pratiche virtuali e la cosiddetta intelligenza artificiale stanno saturando l’ovunque con la loro comodità, il loro fascino e la loro potenza innovativa, per quanto abominevolmente energivora; credo che parallelamente ci sia bisogno di rimettere al centro anche delle sane esperienze fisiche fattuali quotidiane, di ascolto e accoglienza, di cura e rispetto, di approfondimento e condivisione. E lo dico prima di tutto per me stesso.
Senza per questo rallentare o trascurare lo sviluppo e il potenziale delle nuove tecnologie, mi sembra necessario rieducare la mente e il corpo, lo sguardo e l’empatia anche verso il reale per ridare spazio alla fisicità e alle sue relazioni, così da riscoprire, nella oramai inevitabile escalation e pervasione virtuale, il valore aggiunto dell’essere in presenza, del mistero e della potenzialità di ciò che di fisico ci circonda, a partire proprio dal consueto, che se vissuto, osservato e interrogato bene, ha ancora tanto da offrirci.
Mi piace pensare di muovermi fotograficamente in questo territorio di riferimento con gesti e pensieri che, nella loro apparente semplicità, stanno acquistando un rilievo etico, sociale e addirittura politico “subliminale” sempre più indispensabile e significativo.
Le tue immagini sono pacate, silenziose, rendono l’ordinario straordinario, come giungi a questo risultato?
Le procedure mentali e operative che generano foto e progetti restano per diversi aspetti un bel mistero, potrei dire che semplicemente mi sono connaturate, si compiono. Comunque, dato per scontato lo studio, oggi quantomai imprescindibile e che da sempre mi accompagna, in primis mi sembra di ottenere quelle caratteristiche di cui parli attraverso un processo mentale e sensoriale, tramite un lasciarmi attraversare completamente dalle relazioni con una grande predisposizione al coinvolgimento sinestesico e al riparo da ogni tipo di giudizio.
Intravedo il mio agire fotografico come una specie di meditazione, di esercizio, quasi un rituale che, instabile sulla soglia tra natura e artificio, si rinnova con metodo oramai da anni come un possibile rimedio omeopatico sistemico per la prevenzione della perdita di sé e dell’altro, come una pratica di accesso a stati profondi di presenza a sé stessi e al mondo. Ciò incide molto sul contenuto e sulla forma dei risultati, così come vi incidono la cura e il tempo dedicati alla stampa. Infatti, da sempre eseguo personalmente tutte le operazioni che dallo scatto portano all’immagine compiuta. Probabilmente segno il passo, ma, se devo dirla tutta, per me le fotografie e i progetti fotografici diventano effettivamente tali solo quando sono stampati, quando acquisiscono un loro corpo fisico tangibile.

Per concludere aggiungo che alla radice di questo mio approccio per così dire “tuttofare” non c’è tanto l’intento di riaffermare un qualche primato, oramai per molti aspetti anacronistico, della tecnica e dell’autorialità: per quanto importante e attraente la tecnica come fine mi interessa ben poco e nessuno è la sola origine delle proprie opere. Alla base di questa modalità di procedere ci sono piuttosto il piacere personale del farlo e, soprattutto, il bisogno di approfondire lo scambio, l’intimità, con le singole fotografie e con i progetti che esse realizzano, di colloquiare a lungo con la loro “personalità”, con il loro prendere forma, venire alla luce. È soltanto alla fine di questo lento corpo a corpo che le fotografie e i progetti mi corrispondono ampiamente, almeno in quel determinato momento.
Un forte legame con la natura per un viaggio fantastico, oltre le apparenze. Mi parli del legame con la natura nelle tue immagini?
Credo lo si sia capito già dalla prima risposta che la natura è da sempre al centro della mia vita: una madre sacra e universale, ineguagliabile e affascinante, da amare e rispettare, in cui continuare a rispecchiarsi, perdersi e ritrovarsi, e dalla quale apprendere senza soluzione di continuità. La luce, fisica o mentale che sia, è probabilmente la sua espressione massima e ne contiene il senso e il mistero profondi. Mi sembra che questo mio sentire la natura in ogni dove si rifletta su qualsiasi tipo di soggetto fotografato.

Sei solito scegliere spazi neutri, cantieri in via di costruzione o personalizzazione, luoghi non chiaramente connotati, palazzi antichi, come mai questa fascinazione? Come mai hai scelto di non inserire persone nelle immagini?
Nella sua essenza il cantiere, soprattutto se vissuto dall’interno, è ovunque sempre uguale a sé stesso: un ambito in rapida trasformazione, caotico, frenetico, rumoroso e oltremodo sovraccarico, proprio come il nostro tempo, come la nostra vita. Da questo punto di vista continua quindi a essere una specie di metafora efficace della contemporaneità.
Agire fotograficamente nell’intimità lacerata e, spesso, impresentabile di questi luoghi in divenire sopraffatti dall’ansia della meta e di nascondere rapidamente i segni “meno conformi” al presente di un loro eventuale passato (talvolta anche molto rilevante); immergersi nelle tensioni e nelle convulsioni del loro divenire è stata inizialmente anche una risposta all’esigenza di interagire con ambiti privi, all’origine, dell’armonia e dell’incanto che ho sempre ritrovato nella natura, persino nelle sue manifestazioni più cruente. Inoltre, si tratta probabilmente di un modo per confrontarmi con aspetti poco “nobili” e poco “estetici” del nostro quotidiano, per entrare in risonanza creativa anche con contesti banali e privi, appunto, di una qualsiasi bellezza “primaria” conclamata, cercando di dare loro una nuova vita come luoghi della percezione e dello sguardo. E questo senza mai tradire la realtà, ma semplicemente mettendo in campo l’intensità e il silenzio, l’ambiguità e il mistero di una interazione fisica e psicologica esclusiva, la mia.
Riguardo alla seconda domanda, posso dire che questa assenza non vuole essere un rifiuto del corpo e delle persone, ci mancherebbe! Credo invece si tratti paradossalmente proprio dell’opposto, di un estremo interesse e “rispetto” per entrambi. Il ritratto e la figura umana siamo noi! E sono da sempre, e continueranno a essere, un cardine assoluto della fotografia e dell’arte, non potrebbe essere altrimenti. Io ne sono continuamente sedotto e li amo profondamente. Tuttavia, banalmente, non mi sembra sempre necessario includere le persone per provare a riflettere a fondo su di noi, sulla nostra vita e sul nostro mondo, perfino sul nostro corpo. Non di rado la presenza umana finisce per connotare e monopolizzare la forma e il senso dell’immagine o, quantomeno, li sposta a prescindere e immediatamente in direzioni principali un po’ diverse da quelle che, almeno fino ad oggi, cerco di esplorare e mi coinvolgono di più. Permettimi una breve citazione che nonostante parli dell’ombra in rapporto alle mie fotografie, e non della figura umana, forse per osmosi può risultare abbastanza illuminante anche riguardo all’esclusione di quest’ultima. Luca Doninelli nel saggio sul catalogo del mio progetto “Incognita” scrive: “l’ombra (del destino, della morte, del nulla oppure di Dio) non è quella che cade sotto l’obiettivo ma quella che l’artista trattiene nel silenzio, mentre meticolosamente ordina i suoi oggetti, i suoi spazi per poi ritrarli con umile fedeltà.” Detto tutto ciò, per il futuro non escludo nulla nemmeno rispetto al ritratto e all’utilizzo delle persone: il cambiamento e la contraddizione sono importanti e sempre dietro l’angolo anche per un fotografo. Dove c’è un po’ d’incoerenza spesso abita più verità, c’è accoglienza al flusso della vita. Peraltro, anche se non l’ho mai esposta, una breve serie di ritratti declinati al bianco l’ho già fatta, oltre una quindicina di anni fa.
Mi parli del ruolo della luce nelle tue opere e del colore, in particolare del bianco?
Ho praticato per anni il bianco e nero analogico con tutte le sue magnifiche procedure in camera oscura che mi hanno appassionato e insegnato veramente tanto, ma a un certo punto sono passato al colore, che d’altronde avevo già ampiamente utilizzato negli anni iniziali più “naturalistici”. Rispetto al BN quello del colore è di per sé stesso un mondo più ampio, stratificato e complesso, variabile e incerto e, per questo, forse più attuale. Inoltre, consente uno spettro più vasto di registri espressivi, di sfumature, così come il superamento di più facili e forse un po’ più “logore” contrapposizioni, predispone al superamento della stessa logica della contrapposizione. Il colore è l’energia di cui ho bisogno fisicamente ed è anche quell’energia reale capace di trasformare le cose del mondo, noi compresi.

La natura è nei colori che sono nella luce, anzi, sono la luce stessa, che a sua volta è alla base della nostra relazione col mondo e madre in fotografia: una madre mutevole e costitutivamente ambigua come lo sono la realtà, le relazioni, le persone e lo stesso mezzo fotografico. La luce fa germinare, risveglia, rivela e di conseguenza può aprire alla trascendenza e farla risuonare in noi, può entrare in relazione con quella mancanza costitutiva che ci abita e ci muove nel profondo, può restituire parte del loro mistero alle cose, ai luoghi e alle persone.
Tramite una luce “lenta”, “densa” e diffusa, dove le ombre si perdono e fatta spesso di molti bianchi, ricerco atmosfere sospese, in attesa, capaci, almeno nella mia intenzione, di spostare un po’ di attenzione e di pensiero dal noto all’ignoto, dal certo all’ambiguo, al possibile, dallo scontato al poetico, dalle cose alle relazioni tra le cose, così da portare a considerare oggetti, luoghi e situazioni non solo in quanto tali, ma anche come possibili nodi di fenomeni e processi in divenire, compresi quelli dell’immaginazione.
In tutto ciò il bianco è il valore aggiunto che eccede la semplice somma dei colori, è il vuoto generatore e la possibilità stessa per ogni pieno, è, per così dire, lo spazio di incontro tra la persona, la realtà e la memoria, direi che rappresenta la possibilità stessa dell’incontro e della relazione.
All’inizio lavorare con il bianco è stata un po’ una sfida visto che, come evidenzia anche Quentin Bajac nell’apertura del saggio sul mio progetto “Blank”, nella storia della fotografia il bianco non è stato così tanto frequentato, sicuramente molto meno del nero, che per diversi aspetti è più accessibile e malleabile.
Parlando di luce mi viene in mente anche l’espressione “far luce” che, tra l’altro, significa avere la curiosità e il “coraggio” di guardare, di scoprire e conoscere, di interagire, di mettere e mettersi in gioco, in discussione. È anche per questo che continuo a fotografare.
Possiamo dire che il tuo è un procedere alla ricerca dell’essenza delle cose?
Rispondere a questa domanda è, almeno per me, complicato perché non so ancora bene cosa sia l’essenza delle cose, per quanto, nella sua vaghezza, si tratta di una nozione che da sempre mi attrae e mi interroga.
Posso comunque provare a elencarti alcune suggestioni astratte che rimandano, almeno in parte, a questo concetto il quale, un po’ come una mosca bianca, mi si è annidato nella mente da tanto tempo e continua, con insistenza impertinente, a posarsi e ronzare nei luoghi meno opportuni.
In linea generale, mi interessa una fotografia che si accorge della cosa in sé, che non è completamente succube della contingenza e dell’istante, che cerca di riappropriarsi, nella persona del fotografo e dentro le relazioni e le procedure della fotografia, del potenziale della meraviglia e dell’ascolto, che prova a scrollarsi di dosso gli eccessi di protagonismo e spettacolarizzazione, fatto salvo qualche isolato coup de théâtre, sempre avvincente e utile per agganciare possibili interlocutori. E ancora, mi intriga una fotografia che si prende il tempo e si raccoglie intimamente sul “«dorso delle cose» … che si intravede al di là della loro superficie”1, sul visibile che ritrae e, al contempo, sull’invisibile che in esso si ritrae, che prova a sintonizzarsi anche su ciò che esclude e su quella specie di “radiazione di fondo” che, mi piace pensare, attraversi oggetti, situazioni e la stessa fotografia come una sorta di senso e memoria collettivi, sottesi e archetipici. Come ti dicevo, è probabile che tutto ciò abbia a che fare, almeno dal punto di vista della mia predisposizione d’animo, con la ricerca di una qualche essenza delle cose e dei luoghi che fotografo.

Le tue immagini riprendono spazi reali eppure sembrano fuori dalla realtà, metafisiche, è un effetto che cerchi?
Non si tratta di un effetto che ricerco a prescindere, semmai tramite un qualche “make-up” posticcio di Photoshop. È piuttosto qualcosa che, quando avviene, si compie e manifesta molto lentamente nell’esperienza del mio fare, sentire e pensare la fotografia, proprio come sintesi espressiva di tutto ciò di cui ti sto parlando. Per me una significativa aderenza al reale, almeno per quanto possibile in fotografia, continua a essere un presupposto necessario, vivo e tangibile.
Qual è il tipo di macchina fotografica con cui preferisci scattare?
Premesso che non sono un feticista dell’attrezzatura, ti posso raccontare che durante il periodo più naturalistico/documentale degli anni ‘90 lavoravo con pellicole diapositive a colori principalmente nel formato 24×36 mm. Poi ho praticato per diversi anni soprattutto il bianco e nero analogico con una reflex 6x7cm e un banco ottico (folding) 10x12cm, stampando personalmente in camera oscura ogni negativo.
Con il ritorno al colore si è ripresentata anche la reflex 24×36 mm, ma questa volta digitale e corredata da pochi, pochissimi, obiettivi. Nel tempo mi sono convinto a utilizzare un’attrezzatura sempre più agile e leggera e, ciò, nonostante pratichi una fotografia lenta e meditativa. L’attrezzatura e le procedure sono sempre un valido mezzo per interporre una certa, “giusta”, distanza tra il fotografo e il suo soggetto, sono uno strumento utile di analisi e verifica in tempo reale, ma, soprattutto in fase di ripresa, per quel che mi riguarda, non devono pretendere troppa energia e attenzioni. Da qualche anno ho affiancato la reflex con una mirrorless medio formato che si sta comportando abbastanza bene.
Ti identifichi con le tue immagini?
Credo di aver già risposto a questa domanda. Aggiungo soltanto che l’identificarsi o meno in ciò che si fa, nei risultati che si ottengono, è sempre un qualcosa di dinamico e volubile sottoposto a tutte le verifiche e le trasformazioni del tempo.














