
Tra gli ultimi giorni delle mostre aperte prima dell’estate e le nuove inaugurazioni, la stagione artistica romana è ripartita con rinnovata energia. La parte del leone la fa il Mattatoio, con l’interessante collettiva Spazi di resistenza, curata da Benedetta Carpi De Resmini e realizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in collaborazione con Latitudo Art Project, per ricordare il trentesimo anniversario della fine della guerra in Bosnia-Erzegovina.
Una riflessione profonda e articolata che la curatrice ha affidato alle installazioni di sei artiste internazionali: Simona Barzaghi, Gea Casolaro, Romina De Novellis, Šejla Kamerić, Smirna Kulenović e Mila Panić. Ognuna coglie un aspetto del conflitto, attraverso opere di grande impatto, a partire da Casolaro con l’opera L’erba di Sarajevo #2 (1998 – 2025), che riunisce 60 immagini di un frammento di prato che poteva celare la presenza di una mina. Più crudi gli interventi di Kamerić, come l’immagine a parete Bosnian Girl (2003) e soprattutto SUMMERISNOTOVER (2014-2025), entrambe legate alle dinamiche che legano il corpo ai media, intesi come veicoli di potere. I lavori di Simona Barzaghi interpretano paesaggi, luoghi e geografie, in un dialogo tra suggestioni poetiche e concettuali, che trova il suo culmine nell’installazione fotografica Waterline (2024) lungo il corso del fiume Drina. L’attitudine performativa di Romina De Novellis è documentata da tre opere, tra le quali spicca Si tu m’aimes, protège-moi (2022) che vede l’artista pulire freneticamente il pavimento di una stanza, a simboleggiare l’impossibilità di cancellare le ferite del passato. Un processo di guarigione che Smirna Kulenović affida alla forza della natura, attraverso grandi disegni astratti di semi su carta vegetale, mentre Mila Panić presenta Burning Field (2017), un video con un incendio su un campo agricolo, considerato parte dell’eredità dell’artista.

Sull’altra riva del Tevere vale la pena fare una sosta nella chiesa di Sant’Andrea de Scaphis occupata da Cleaning EARTH, la mostra personale dell’artista africana Wagenchi Mutu, legata ai temi tipici del suo lavoro: femminilità, afrofuturismo, identità e spiritualità. Troneggia al centro dello spazio la scultura Mountain Mama (2024), una sagoma femminile in terra collocata su un’alta base a gradoni rivestiti di nastri rossi. Figura guardiana minacciosa e potente, è posta in dialogo con il video Cleaning Earth (2006), dove una donna inginocchiata pulisce ossessivamente con una spazzola un pavimento. Un occhio allenato può scoprire anche l’ultima opera, Maria (1997), una piccola scultura esposta sulla facciata della chiesa, quasi una sorta di edicola mariana in versione afro.

Il tour settembrino prosegue da Gagosian, dove si è inaugurata da poco la personale di Urs Fisher After Nature. Anche questa volta l’artista si dedica a remake di capolavori della storia dell’arte del Ventesimo secolo, riletti in chiave ironica e provocatoria: alle pareti grandi pannelli fotografici rappresentano granuli di polvere depositati sulle pareti della galleria, come nell’opera di Man Ray Dust Breeding (1920). Il centro dello spazio ovale è occupato dalla grande scultura in poliuretano colorato Body (2025): una sagoma di donna sdraiata, accompagnata da due pouf, che ricorda She—A Cathedral, l’installazione del 1966 di Niki de Saint Phalle, Jean Tinguely, P.O. Ultvedt e Pontus Hultén, esposta al Moderna Museet di Stoccolma. Una presenza forte ed ironica, che potenzia in maniera significativa la mostra che prosegue nei giardini di Villa Medici, dove Fisher ha collocato Dance (2025), una scultura in marmo e alluminio che rilegge in chiave contemporanea, tra ironia e dramma, La danzatrice con cembali (1809–1812) di Antonio Canova. Un abbraccio mortale tra la figura femminile e uno scheletro metallico, che interpreta l’aspirazione romantica di diventare tutt’uno con l’altro: una prova del talento di Fisher nell’attualizzare le icone dell’arte antica con uno sguardo attuale, estremo ma mai forzato.

Alla galleria Tornabuoni Arte Roma la collettiva Italian Wave racconta gli anni Ottanta in Italia attraverso l’occhio di Francesca Alinovi (1948-1983) con una selezione di opere di otto artisti, tra cui alcuni capolavori. Davvero notevole e sorprendente Meaningless stone (1990) di Francesco Clemente, dove si ritrovano elementi della pittura americana dell’epoca – da Donald Baechler a Philippe Taaffe – mentre Nicola De Maria gioca tra astrazione e figurazione con La Russia Sovietica (1981) dove guarda al primo Kandinskij. Il cubismo di Picasso e Braque ispira il collage di Aldo Mondino Arlecchino storico e il suo strumento 75 (1971), mentre Mimmo Paladino con Porta d’Oriente (1989) esplora suggestioni provenienti dall’informale, tra Antoni Tàpies e Maria Lai.













