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Le due anime della Quadriennale

Fantastica, Quadriennale d’Arte di Roma, Palazzo delle Esposizioni Fantastica, Quadriennale d’Arte di Roma, Palazzo delle Esposizioni
Fantastica, Quadriennale d’Arte di Roma, Palazzo delle Esposizioni
Fantastica, Quadriennale d’Arte di Roma, Palazzo delle Esposizioni
Approfondita analisi delle due sezioni della diciottesima Quadriennale appena apertasi a Roma al Palazzo delle Esposizioni

Si è aperta ieri a Roma la diciottesima Quadriennale al Palazzo delle Esposizioni. La mostra è divisa in due sezioni: la prima intitolata Fantastica raduna gli artisti che sono emersi negli ultimi venticinque anni, la seconda è una raccolta di opere degli artisti che hanno partecipato nel 1935 alla seconda edizione. Abbiamo innanzi, perciò, le due anime della Quadriennale: l’esposizione e l’istituzione. Ora, se teniamo a mente ciò, è più facile capire cos’è l’edizione di quest’anno.

Partiamo dall’esposizione, anche perché è la prima che incontriamo entrando nel palazzone di Pio Piacentini (padre di Marcello, per intenderci) dopo l’ascesa istituzionale dallo scalone di via Nazionale. Divisa in cinque sezioni curate da altrettanti curatori, Fantastica occupa tutto il primo piano. Al centro ci accoglie la grande installazione di Giulia Cenci (Cortona, 1988) Secondary forest (2024), un vero e proprio intreccio di rami scheletrici terminati con teste umane. Che invadono una griglia di sostegno che a mala pena regge l’arcigna proliferazione. La dislocazione a destra e a sinistra è sgranata, aperta, modulata da setti opachi di un allestimento sobrio, quasi invisibile, degli architetti Marco Rainò e Barbara Biondi (BRH+). Il risultato è una ariosa ripartizione degli assetti espositivi.

Francesco Stocchi è l’unico curatore che non ha voluto dare un titolo alla sua mostra, che occupa gli spazi a destra dell’ingresso. L’esperimento di Stocchi si è basato, infatti, sull’abbandono della regia curatoriale che ha lasciato campo libero agli artisti. Ispirandosi alla famosa Exposition International du Surrèalisme del 1938, quando André Breton fece lo stesso passo indietro. L’interazione e l’integrazione delle poetiche rivoluziona l’imperturbabilità degli spazi ricondizionandone l’austera neutralità, dal pavimento al soffitto. Qui troviamo dei capolavori contemporanei come Hunger (2008) di Arcangelo Sassolino (Verona, 1967), che misura lo spazio con il suo movimento lento e pesante. Sino a minacciare il mosaico Welcome di Luca Bertolo (Milano, 1968), disteso come uno zerbino all’entrata del padiglione.

Fantastica, Quadriennale d’Arte di Roma, Palazzo delle Esposizioni
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Anarchia di fondo

Questa sezione, decisamente anomala per via di una certa anarchia di fondo, è irrorata da uno spirito di cooperazione che produce una commistione di poetiche, una sovrapposizione di segni. Questo aspetto è più evidente nel secondo e terzo spazio in cui gli artisti hanno elaborato, ciascuno a modo suo, il tema del doppio. Tema, ricordiamo, scelto da loro. L’ultima parte è articolata su diversi registri espressivi unificati dal rivestimento di Adelaide Cioni (Bologna, 1976) dell’opera Grid for My Friend the Anarchist (2025).

Disseminate le sedie di legni riciclati di Martino Gamper (Merano, 1971) offrono una comoda seduta per vedere le opere di Pietro Roccasalva (Modica, 1970), Valerio Niccolai (Gorizia, 1988), mentre il grande quadro di Luca Bertolo Compianto (2024, olio, acrilico e carta da parati su tela 300X400 cm) domina la sala dal fondo. Bertolo è presente con il video Methallomai (2012) e lo spazio, segnato dalla griglia rossa di Cioni, diventa il palcoscenico per l’azione di Alessando Sciarroni (San Benedetto del Tronto, 1976) Untitled_I will be there when you die (2013), dove un instancabile giocoliere fa roteare i clavi fino all’inevitabile errore.

Nello stesso luogo troviamo le nere sculture metalliche della giovane Lulù Nuti (Parigi, Levallois – Perret, 1988), astro nascente della scena romana, che ingigantisce salpingi facendole diventare minacciose creature acute. Lasciando la grande sala quadrettata troviamo di fronte a noi i dipinti di Bea Scaccia (Frosinone, 1978). Un trittico di atmosfere asfittiche, un mondo intricato dal titolo Chiome per aria, gatti sul tappeto (2025). Siamo già nel novero degli artisti selezionati da Francesco Bonami. Il curatore che ricordiamo per la ormai storica mostra Italics (2008) che cassò ogni velleità concettuale dell’arte italiana. Salutando un ritorno alla pittura con una puntualità sorprendente, resta qui legato a una manualità ostentata, a volte sibaritica a tratti affetta da bulimia figurale.

Fantastica, Quadriennale d’Arte di Roma, Palazzo delle Esposizioni
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Le regioni del fare

Che acquista un suo fascino quando la decorazione insegue la figura, cioè quando il segno programmato diventa preziosa digressione narrativa. È il caso delle matite di Roberto Cavitelli (Piacenza, 1979), di una perizia abbacinante, oppure delle chine con cui Luca Gioacchino di Bernardo (Napoli, 1991) dipinge manti lucidi e irsuti dei proto-uomini. Grafismi sapienti, talvolta eccessivi. Disegno e pittura diventano qui gli strumenti di sondaggio delle regioni del fare. Prendiamo, ad esempio, la voluta elementarità del lavoro di Emiliano Furia (Bergamo, 1991) esposto su un tavolo a parte. Volutamente slegato dal raffinato e canonico Display espositivo, sembra una nicchia di spontaneità outsider.

Continuando la visita ci s’accorge come l’allestimento diventi talvolta teatrale come nel caso di Jem Perucchini (Tekeze, 1995) che offre nello scrigno nero della stanza personale la sua scintillante pittura. O la nicchia erotica della pittrice Shafei Xia (Zhejiang 1989). La mostra continua con la parte diretta da Luca Massimo Barbero. Con il titolo La mia immagine è ciò da cui mi faccio rappresentare. L’autoritratto. Il cibo, i gatti, la palestra, me stesso, i viaggi ammennicoli vari, d’ex direttore del Macro si diverte a portarci in un mondo che oscilla tra personali diletti e fascinazioni contemplative.

L’Orfeo di Jean Cocteau, con la sua crudele riflessione sul riflesso, è il viatico per capire una mostra dove troviamo indiscutibili altezze ed inquietanti spiazzamenti. È notevole l’algido silenzio del ciclo di Luisa Lambri (Como, 1969) sugli angoli interni delle sculture minimaliste in alluminio, che il curatore ha messo in dialogo con Quando le sensazioni diventano vere (2024) di Gianni Caravaggio (Rocca San Giovanni, 1968). Inquieta invece e spiazza la presenza di figurazioni muscolari di Matteo Fato (Pescara 1979), di vago sapore transavanguardista. Superfici spesso oltraggiate dal movimento materico alla ricerca di una soluzione figurativa delle opere di Marta Spagnoli (Verona, 1994) e lavori oggettuali sempre in dialogo con lo spazio espositivo.

Fantastica, Quadriennale d’Arte di Roma, Palazzo delle Esposizioni
Fantastica, Quadriennale d’Arte di Roma, Palazzo delle Esposizioni
Una forte autoironia

Ecco allora che in questa alternanza i lavori di Vedovamazzei acquistano un ruolo di fulgida testimonianza di una generazione dell’arte italiana, marcata da una forte autoironia. Quando si poteva ancora giocare leggeri con la storia e la memoria anche in termini autobiografici. Il tempo delle immagini. Che cosa stiamo guardando? È la parte curata da Emanuela Mazzonis di Pralafera ed è forse la mostra più complessa e articolata. Partiamo dalla volta stellata di Giovanni Ozzola, una citazione medievale, così iconica ma, al tempo stesso, capace di trasporre le atmosfere dei dipinti in un luogo di sospensione contemplativa.

Comincia qui il viaggio all’interno di una digressione fantasiosa sul mezzo fotografico. Qui i modi in cui la fotografia si smarca dalla narrazione sono diversi. Talvolta diventa un sistema compositivo multiplo, al limite della visibilità, talaltra entra in competizione con i generi della pittura. Dove, come fa Massimo Grimaldi (Taranto, 1974), l’uso della manipolazione digitale diventa uno strumento di integrazione tra linguaggio e soggetto.

Ecco, allora, che le foto di Linda Fregni Nagler (Stoccolma, 1976) diventano gli emblemi di una controrivoluzione che riporta al centro l’immagine della fotografia analogica. Sebbene in termini di recupero, in forma anamorfica, ripetuta e frazionata in schegge di ricordi sbiaditi. Si avverte, perciò, l’avviarsi di un ragionamento sull’immagine che Francesco Iodice (Napoli, 1967) elabora dalla storia del cinema nel film del 2019 Rivoluzioni.

Fantastica, Quadriennale d’Arte di Roma, Palazzo delle Esposizioni
Fantastica, Quadriennale d’Arte di Roma, Palazzo delle Esposizioni
Un sentire neutro

Questo ragionamento ci porta dritti all’allestimento di Jacopo Benassi (La Spezia, 1970) che rimanda alla protesta sessantottina di Gastone Novelli. Benassi reinterpreta la pittura con una dolce eversione dalla sua funzione celebrativa. Negando l’operato con l’operatore, mettendo sotto i riflettori la ripulsa nei confronti del compiacimento. L’ultima sezione, che incontriamo in questa visita che abbiamo compiuto in senso destrogiro, è quella curata da Alessandra Troncone intitolata Il corpo incompiuto tra materialità e codice. Troncone sembra introdurci il problema della verifica dell’umanità percepita e comunicata. Cioè se l’una s’appresta ad essere conseguenza dell’altra. Il sentire può essere codificabile in modo da essere una pacificazione con la macchina?

Mario Perniola descriveva nel suo memorabile Il sex appeal dell’inorganico (1994) gli aspetti di un sentire neutro dove la componete performativa diventava più importante del processo di interiorizzazione. In questo modo l’esperienza nel mondo andava a sostituire l’esperienza del mondo. Il tema della post umanità è ora trattato, nei termini proposti da Alessandra Troncone, come una imperfezione funzionale, ossia come un continuo adattamento. A cosa si dovrebbe adattare il corpo contemporaneo? Non v’è dubbio alcuno che l’eredità biologica diventa una narrazione di sé, in pratica un mito che si infrange sul muro della contingenza. Ma è anche vero che questo mito apre alle prospettive immaginarie che sono varianti codificabili.

Fantastica, Quadriennale d’Arte di Roma, Palazzo delle Esposizioni
Fantastica, Quadriennale d’Arte di Roma, Palazzo delle Esposizioni
Metafora della comunicazione

La performance di Antonio della Guardia, per esempio, che si è svolta nello scalone destro del Palazzo delle Esposizioni, è una ripresa dei gesti reiterati del minimalismo, i suoni ispirati alle sequenze di Terry Riley o Steve Reich dirigevano i passi di una danza cadenzata da gesti gemelli di due danzatrici vestite di blu elettrico. Interessante il lavoro del musicista Roberto Pugliese (Napoli, 1962), che sembra travalicare l’aspetto conflittuale portando il suono a completare l’azione di due bracci robotici. In un ballo di corteggiamento tra emittente e ricevente, nell’opera Industrial Equilibrium (2024). Il corpo sostituito e sintetizzato in prodotti tessili da Emilio Varvarella (Monfalcone, 1989) è invece il tema di una complessa installazione dal sapore pubblicitario intitolata Lifeweve (2025), dove il cliente raccoglie il campione di DNA e lo spedisce all’azienda per produrre un arazzo.

Tra questi due estremi in cui la macchina è metafora della comunicazione e il corpo letteralmente connesso con la produzione industriale, troviamo i fantastici mutanti di Agnes Questionmark (Roma, 1995), i ritratti digitali di Federica di Pietroantonio (Roma, 1996), il video claustrofobico e disperato di Valentina Furian (Venezia, 1989), i dipinti di Iva Lulashi (Tirana, 1988), che abbiamo visto al padiglione dell’Albania della Biennale l’anno scorso, le concrezioni biomorfe da Wunderkammer di Diego Cibelli (Napoli, 1987) e l’istallazione eterogenea Simbionemon. The Agency of Chimeric Becaming (2025) di Camilla Alberti (Milano, 1994).

Fantastica, Quadriennale d’Arte di Roma, Palazzo delle Esposizioni
Fantastica, Quadriennale d’Arte di Roma, Palazzo delle Esposizioni
Questo per ciò che riguarda l’esposizione, poi c’è l’istituzione

Sebbene funestata dalla improvvisa morte di Luca Beatrice, l’istituzione era già in una sorta di transizione che la ferale notizia ha da un lato tristemente concluso e dall’altro inaspettatamente risolto. La Quadriennale, lo ricordo, venne affidata in primis alla cura e all’organizzazione a Gian Maria Tosatti. Tosatti aveva previsto un itinerario formativo e informativo, tipo quello attuato da Okwui Enwezor nel 2002 per l’undicesima Documenta, per capirci. Cioè con tappe intermedie di riflessione sull’arte contemporanea italiana. Di fatto, sulla Quadriennale ha sempre aleggiato lo strumento ricognitivo delle mostre sindacali regionali di cui la Quadriennale rappresentò, in pratica, il riassunto.

L’istituzione ovviamente ha subito nel tempo alterne vicende, e a queste vicende hanno corrisposto altrettante aspettative. Per ciò che riguarda il portato culturale e, di conseguenza, il portato culturale. Nel tempo, infatti, la Quadriennale nella ricerca sul territorio italiano delle eccellenze ha dovuto fare i conti prima con il regime, poi con la sua memoria. Sicuramente con le rivoluzioni culturali e di costume, con la globalizzazione e, infine, con i populismi. Dobbiamo, per questo motivo, tenere presente queste pressioni per capire perché la sezione dedicata all’edizione del 1935 è da intendersi come uno strumento di analisi della situazione attuale.

In che senso? In un recente studio, Lýdia Pribišová ha esaminato il passaggio della Quadriennale da Ente a Fondazione, in cui si profilano i punti chiave della recente storia dell’istituzione. Indicando luci e ombre, cioè quando i meccanismi istituzionali si sono inceppati e quali sono state le cause, ma anche quando l’istituzione ha invece prodotto una singolare risonanza. A partire dalla vicenda statutaria, divisa in tre momenti, 1937, 2001, 2013, la Quadriennale, infatti, ha risposto ad esigenze culturali mutanti che evidentemente hanno imposto la necessità di un ridimensionamento nel giro del primo decennio del nostro secolo.

1935

È da qui, infatti, che dobbiamo partire per capire il significato della sezione curata da Walter Guadagnini, che è quello di restituire la memoria di un cambiamento partendo dalle sue origini. Questa sezione, costellata di indubbi capolavori, è stata ben allestita dall’architetto Barbara Brondi, che ha usato grandi riproduzioni di riviste e articoli coevi per contestualizzare ciò che rischiava di diventare una nostalgica rievocazione. Proprio per questo siamo in grado di capire i motivi per cui la seconda Quadriennale divenne una mostra rilevante.

C’è, infatti, un ingrandimento che campeggia alto sul muro, poco distante dalla famosissima tela di Osvaldo Licini Castello in aria (1933 – 36), della pagina del giornale satirico “Settebello” del 23 febbraio 1935. In questa pagina il noto illustratore Cesare Gobbo dileggia in una striscia le opere esposte difronte ad un pubblico incredulo. Questo dettaglio ingrandito, che per dirla tutta anticipa di trent’anni le famose vignette di Ad Reinhardt e la goffa escursione di Sordi alla biennale in Vacanze intelligenti, ci introduce all’attuale percezione dell’arte contemporanea.

Ciò a dire che lo stacco tra il primo e il secondo piano è lo stesso che c’è tra il primo e il secondo statuto della Quadriennale 1937 – 2001 e chissà se un giorno vedremo alla quadriennale una sezione dedicata a questo lungo, sorprendente, a volte pernicioso, periodo dell’arte italiana.

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