
Paolo Levi propone una riflessione che contrappone l’ispirazione dell’artista israeliano Dani Karavan alle violenze dei cortei Pro Pal
Free Palestine: I manifestanti devastano le OGR di Torino. Faccio mia la comunicazione della Redazione di ArtsLife del 3 ottobre u.s, nonché la immagine di cronaca dei manifestanti pro pal alla OGR di Torino. Conseguente alla mia professione di commentatore d’arte storicizzo questo microcosmo di violenza in chiave Body Art, di autori ignoti, criminali dal voto bendato in azione. Lo scatto fotografico riporta un’immagine bellica, dai colori narranti, poeticamente inquietante per le anime sensibili.
Fa da didascalia esplicativa ArtsLife: “Alle OGR sono stati danneggiati maxi-schermi, sedie e tavoli, rotti monitor e vetri, lanciati fumogeni e minacciati giornalisti che stavano documentando l’azione. Cancelli e vetri sfondati, porte e fioriere divelte, gazebo distrutti. Questo lo scenario registrato ieri sera, 2 ottobre, quando oltre ventimila persone hanno partecipato al corteo Pro Palestina a Torino. Una frangia radicale composta da circa duecento manifestanti con il volto coperto si è staccata dal resto del corteo ed è entrata con forza nelle OGR di corso Castelfidardo. Dove in questi giorni si tiene l’Italian Tech Week. Dopo circa venti minuti i sono stati allontanati dalle forze dell’ordine intervenute senza che si registrassero scontri armati. Alcuni testimoni parlano di Torino “sotto scacco per dieci ore”, con blocchi anche all’aeroporto di Caselle e rete viaria in tilt. L’assalto assume un forte valore simbolico perché le OGR non sono soltanto uno spazio culturale e tecnologico d’avanguardia, ma anche sede di eventi che nei prossimi giorni avrebbero dovuto ospitare la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, John Elkann e Jeff Bezos. Ora sono attese indagini per danni”.
A questa immagine desidero contrapporre l’opera plastica di area concettuale di Dani Karavan (Tel Aviv, 1930–2021): Gli ulivi saranno i nostri confini.

Dani Karavan è stato, uno dei maggiori esponenti della scultura del Novecento. Pittore, scultore e coreografo israeliano, ra conosciuto soprattutto per le sue opere Site-specific. Molto legato alla Toscana dopo gli studi giovanili, vi tornava spesso. Nel ’78 realizzò Due ambienti per la pace a Forte Belvedere e, a fine anni Novanta, una serie di esposizioni tra Firenze, Prato, Pistoia e Celle. Ma soprattutto ha sempre cercato di dare forma a un sogno fragile: la pace tra Israele e Palestina. I suoi ulivi, piantati come sculture viventi, erano dichiarazioni politiche e poetiche: radici che si intrecciano sotto la terra, fronde che non conoscono confini.
Oggi, guardando a Gaza devastata, quel gesto assume un’eco ancora più lacerante. Gli ulivi “senza confini” si stagliano contro un orizzonte di macerie, diventano visione di ciò che potrebbe essere e che invece resta negato. Karavan sapeva che l’arte non può fermare la guerra, ma può aprire spazi simbolici in cui immaginare la convivenza. Gaza oggi è la negazione di quello spazio: è muro, assedio, paura. Eppure proprio lì il suo linguaggio resiste: camminare tra i suoi percorsi, seguire le linee tracciate nel terreno, significa ancora immaginare passaggi invece di barriere. Gli ulivi piantati in terra ferita sono atti di fiducia: semi contro il filo spinato, ombra contro l’incendio delle bombe. Il suo lavoro è politico perché rifiuta l’indifferenza.

È poetico perché sa che la pace non è soltanto un trattato, ma un organismo che cresce lentamente. In questo tempo di Gaza ferita, l’eco di Karavan ci ricorda che la vera opera d’arte è la convivenza. Non un’utopia astratta, ma un gesto quotidiano: sedersi sotto lo stesso albero, condividere lo stesso pane, proteggere la stessa terra. Ha scritto Letizia Sgalambro, psicologa del comportamento, in occasione della morte dell’artista israeliano: “Ci sono a volte degli avvenimenti che ti segnano per tutta la vita senza che neanche tu te ne renda conto. Non parlo di traumi o eventi plateali, sono piccole cose, frasi, suoni, odori, che come semi, una volta entrati dentro fioriscono e crescono con noi. Nel Giugno 1978 non ero ancora maggiorenne. Ricordo che andai alla mostra di Dani Karavan al Forte Belvedere Two Environment for peace completamente ignara di cosa stessi andando a vedere, a ripensarci adesso la mia ignoranza sia sull’architettura che sui temi relativi al conflitto tra Israele e Palestina era veramente vergognosa. Ma accadde un miracolo. Era il primo giorno di esposizione e i custodi delle diverse stanze si decisero di presentare la mostra gli uni agli altri; probabilmente ognuno aveva avuto l’informazione solo per i propri spazi senza averne un’idea generale, e colmarono quel gap con una visita autogestita. Io e il mio fidanzato dell’epoca ci trovammo nel mezzo a questo tour e quindi potemmo acquisire le conoscenze necessarie per apprezzare tutta l’esposizione. Ricordo poco di quello che c’era, ma una frase scritta da qualche parte mi è rimasta impressa e mi rendo conto adesso che mi ha guidato in tutti gli anni a venire. Forse non l’avevo neanche capita, ma certamente mi ha condizionato l’anno successivo nella scelta dell’argomento della tesina di storia dove andai ad approfondire la storia del popolo ebraico. E forse anche anni dopo, ai tempi della Prima Intifada, quando aderii a un progetto di adozione a distanza. O quando sono andata più volte a Ramallah e Gerusalemme cercando di parlare con più persone possibile per riuscire a capire le ragioni di due popoli. Per questo motivo, un giorno gli ulivi saranno i nostri confini“.













