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La fine di un’epoca. Intervista a Nicola Verlato

"Menade che assale un pastore" olio su tavola, cm 35x50, collezione privata Napoli
“Giacomo Boni scopre la Lapis Niger” olio su tela cm 200×140, 2025, collezione privata Roma
A tu per tu con Nicola Verlato. Una lunga intervista che ci racconta della sua pittura, delle sue idee sul sistema dell’arte e delle sue tematiche

Incontriamo Nicola Verlato a Roma, città bellissima che sopravvive nel tempo alle proprie difficoltà di metropoli ingarbugliata, con i soliti irrisolti problemi. Solo a Milano hai avuto tre studi, spesso erano anche la tua abitazione (Via Fusetti, Corso Porta Ticinese, Via Signorelli), hai uno spirito rabdomante con forte senso di adattamento, alle soglie della precarietà, nel puro spirito bohème Da Vicenza sei passato a Milano, poi NYC, LA ed ora sei a Roma, vale ancora la regola dei 7 anni e come ti trovi a Roma?

Si, è  vero che di solito cambio città ogni sette anni: è successo per tre volte prima di Roma, nella quale ho oramai trascorso 7 anni per l’appunto. In realtà sono vissuto anche circa 14 anni a Venezia prima di spostarmi a Milano. Attualmente abito di fronte al Campidoglio e ho lo studio a qualche centinaio di metri dal Colosseo. Ogni giorno per recarmi al lavoro passo accanto all’eterno che si è materializzato nel marmo e nella pietra. Sette anni che faccio questa strada e sono sempre incredulo ed estatico del potere che queste opere continuano ad esercitare dopo 2000 anni. Non c’è nulla che le si possa paragonare. In pochi minuti a piedi vado al Pantheon, l’edificio più straordinario mai costruito. Chiese magnifiche e dipinti straordinari, sculture che non hanno pari al mondo intero.

Molto difficile lasciare una città come questa. Il mio vero luogo fisso è lo studio dove passo la maggior parte del mio tempo. Posso dare l’idea di aver un forte senso di adattamento, ma in realtà non ce l’ho per nulla… sono sempre interessato però a vedere come il mio lavoro cambi a seconda dei luoghi e le relazioni che intrattengo e che forzatamente mi influenzano.

Lo si vede dai quadri che ho eseguito nelle diverse città, più che altro nei soggetti che affronto, mentre composizione e stesura pittorica non cambia praticamente mai.

Ho cambiato sede così spesso sempre alla ricerca del miglior luogo dove fare attecchire la mia visione, sicuramente molto legata all’identità italiana e tutta puntata al mantenimento e alla rivitalizzazione della nostra tradizione. Mi era chiaro, sin dagli anni ’90 quando cominciai ad introdurmi sulla scena dell’arte contemporanea (prima lavoravo su commissione per famiglie nobili e facoltose a Venezia), che proprio in Italia vigeva il massimo antagonismo contro le nostre stesse radici culturali, per cui mi decisi a lasciare il nostro Paese.

Ora sei qui, facciamo, per quanto possibile, un punto sulla situazione attuale. Cosa è successo, come la pittura ha subìto i condizionamenti degli eventi?

La pittura subisce certamente il condizionamento degli eventi, ma, secondo me, in un senso diverso da quello che mi sembra tu voglia intendere.

Non sono tanto gli eventi storici singoli ad influire sulle sue direzioni, ma piuttosto è l’avvicendarsi, spesso conflittuale, di sistemi dominanti caratterizzati da precise radici culturali a determinare come la pittura e l’arte in generale venga poi intesa.

A me sembra chiaro che oggi si sia dinanzi alla fine di un’epoca storica, la globalizzazione di marca anglosassone, la quale ha determinato per molti decenni come l’arte dovesse essere concepita praticamente in tutto il mondo.

La pittura italiana dell’Ottocento non era solo paesaggi ameni, ma anche pittura di storia e grandi cicli decorativi come quelli di Cesare Maccari (1840 – 1919) al Senato e Giulio Sartorio (1860 – 1932) al Parlamento. Questi cicli decorativi furono realizzati solo dopo la fine di un periodo di globalizzazione ottocentesca durante il quale i pittori Italiani dovevano recarsi a Parigi per tentar la fortuna la quale non arrise sempre a tutti in ugual misura. Giovanni Boldini, Federico Zandomeneghi e Giuseppe De Nittis ottennero un vero successo in quella capitale adattandosi maggiormente a ciò che veniva loro richiesto. Erano i più bravi? Non ne sono convinto proprio per nulla.

Altri pittori allora di grande notorietà, che lavoravano con gallerie importantissime del tempo (es. Adolphe Goupil) ora non li ricordiamo nemmeno più. Tutti i rivolgimenti che sono accaduti a livello globale negli ultimi decenni, non hanno mai intaccato il dominio globale sull’arte dell’impostazione che all’arte le elites internazionali hanno dato dal secondo dopo guerra in poi.

Si è trattato solo di oscillazioni entro un recinto di norme e limitazioni molto ristretto e ben codificato. Gli apparenti “ritorni” alla pittura, sono avvenuti sempre entro logiche ben delineate che non intaccavano il progetto, in fin dei conti, “iconoclasta” dell’arte contemporanea.

 

Nicola Verlato
Nicola Verlato

Abbiamo pestato le nostre tradizioni?

Non so se siamo stati veramente noi a massacrarle oppure se, massacrati com’eravamo, dalla fine della seconda guerra mondiale in poi abbiamo semplicemente fatto ciò che ci veniva chiesto di fare dal nuovo padrone. Ricordiamoci dei repentini cambi stilistici di artisti come Capogrossi, Afro, Fontana e chissà quanti altri, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale.

A questo proposito si deve considerare il ruolo che ebbe la CIA, come testimonia Frances Stonor Saunders nel suo documentatissimo “Who paid the piper”, l’Organizzazione per la libertà della cultura (messa in piedi dalla CIA) nell’imporre, subdolamente, l’espressionismo astratto e tutte le correnti successive dell’arte americana in Italia.

Esiste però ostacolo quasi insormontabile in Italia, per chi cerca in tutti i modi di cancellare la nostra cultura. Esso è costituito dal fatto che l’arte, nel nostro paese, non viene goduta esclusivamente nel chiuso dei musei, come avviene, per esempio, negli Stati Uniti, ma è uno dei fattori fondamentali che struttura il tessuto urbano della città. E’ ben difficile rinchiudere il marmo dei monumenti e le mura delle chiese colme di affreschi in luoghi appositi e circoscritti. Anche se la nostra identità culturale è stata relativizzata in tutti i modi essa resiste e forgia i nostri cervelli in un modo affatto diverso da come avviene in altre regioni del mondo.

Nel 1964 alla Biennale di Venezia vince il Leone d’oro Robert Rauschenberg, quanto ha inciso sullo sguardo italiano, quanto ha influenzato il lavoro degli artisti?

E’ stato dato seguito al progetto colonialista, studiato sui tavoli, che ha indotto una prevaricazione culturale, un tentativo di appropriazione di cosa deve essere cultura imponendo al mondo l’assoluta centralità del sistema artistico americano. 

Nei primi anni del 2000 emergono le varie espressioni di giovani artisti, le “scuole” territoriali di Roma, Palermo, Milano, i toscani e l’avanguardia dei pittori torinesi.  Seppur lontano dalle correnti del gusto contemporaneo, eri anche tu nel girone della nuova pittura figurativa italiana della quale mi sembra si siano perse un po’ le tracce (molti tuoi colleghi si sono dati all’insegnamento o preso altre direzioni), eppure tu sei qui, sempre con il pennello in mano che persegui il tuo lavoro con virtuosismo tecnico puro della scuola del rinascimento italiano.

Il “girone” della pittura figurativa si è creato grazie a due componenti in contrasto fra loro: l’irriducibilità della nostra cultura che ha fatto in modo che stuoli di pittori figurativi continuassero ad emergere nelle nostre regioni e città, particolarmente in provincia, e con una connotazione spesso dialettale e locale e, dall’altra parte, accompagnata ad un deciso antagonismo del sistema dell’arte verso la pittura degli italiani nel loro proprio paese.

Ecco che così si è formato un gruppo vastissimo di pittori che hanno potuto accedere molto sporadicamente ad occasioni di rilievo istituzionale con la conseguenza che poco è stato investito su di loro da parte di collezionisti nostrani e stranieri.

In ogni Paese del cosiddetto occidente sono emersi pittori figurativi celebratissimi che vendono le loro opere a cifre impressionanti: Hockney, Freud, Currin, Yuskavage, Richter, Kiefer, Rauch, etc… ma in Italia non si è assolutamente voluto che ciò accadesse (a parte la parentesi transavanguardista presto richiusasi degli anni ’80).

Le ragioni sono molte, e, secondo me, soprattutto di tipo geopolitico e direi di stampo neocolonialista. Il lavoro di normalizzazione in Italia è stato fatto da gli anni 50 agli 80 per cui, oggi, si tratta solo di mantenere la situazione escludendo ogni possibilità di ritorno alla pienezza della nostra tradizione.

L’impostazione del mio lavoro ha determinato una certa differenza rispetto a molti altri pittori della mia generazione: i miei riferimenti, anche, e soprattutto, a livello metodologico, si sono rivolti esclusivamente verso l’arte classica entro la quale poi ho calato narrative a noi contemporanee. Forse questa combinazione fra tradizione e innovazione ha fatto la differenza sia con i pittori che si adattavano alle correnti internazionali che con i figurativi nostalgici che rifiutavano in toto il mondo attuale. Io odio la nostalgia. D’altro canto ho sempre rifiutato in toto il mezzo fotografico come fonte primaria delle immagini dipinte.

Questo approccio era la norma sullo scorcio degli anni ‘90 e i primi 2000, sulla scorta soprattutto dell’esempio di Gerhard Richter. Quello che è alla base di ogni mio dipinto è il disegno, che procede direttamente dall’immaginazione senza nessuna mediazione.

Tutto nasce da un foglio bianco e una matita. Successivamente costruisco modelli tridimensionali in creta o plastilina, o digitali in 3d (fin dai primi anni 90). Verifico così composizione luci e prospettive nello spazio tridimensionale, e solo poi lavoro con modelli viventi o con sculture più’ precisate nei dettagli per aggiungere informazioni ulteriori. A questo punto procedo alla pittura vera e propria che riprende in pieno i dettami della pittura classica fatta di passaggi successivi dalla grisaglia iniziale alle diverse velature fino al suo compimento.

All’estero, John Currin era considerato un profeta, a suo modo un innovatore. Murakami, Jeff Koons, Peter Doig, Luc Tuymans, sempre nei primi anni 2000, Neo Rauch, chi altri? Si sono aperte frontiere con queste “nuove” pitture?

Non credo si sia aperta nessuna frontiera. Si è trattato di oscillazioni all’interno di un recinto ben stabilito dove la pittura e l’arte in generale non dovevano ritrovare mai la loro pienezza propria della tradizione classica.

Currin è caratterizzato solo apparentemente dall’adesione ad una pittura tradizionale, in realtà la sua è una corrosione sarcastica di ogni stilema desunto dal rinascimento e da epoche successive.

Per Jeff Koons i capolavori classici, di cui fa eseguire copie accuratissime, vanno disturbati con le sue palle riflettenti. Lungi dall’essere un omaggio alla grande arte della tradizione, le sue operazioni vogliono mostrare, secondo lui, che solo la tautologia oggi è possibile e che non è possibile ripercorrere il tragitto che porta alla creazione di nuovi dipinti in grado di rappresentare nella forma del dipinto le nuove narrative. L’unica possibilità per Koons, è di disturbare le realizzazioni che hanno avuto la potenza di durare fino a noi.

Peter Doig recupera una stesura pittorica “munchiana” alle origini del moderno, cosa che fanno oggi in molti e che riprende un processo di decostruzione in termini bidimensionali di ogni efficacia rappresentativa di tipo classico, è un compromesso che piace a molti, soprattutto a chi non riesce ancora a staccarsi del tutto dai dettami del moderno.

Anche Neo Rauch, sicuramente quello di più talento fra costoro, non manca mai l’occasione di introdurre contraddizioni nella rappresentazione in modo che ci venga sempre rammentato che si tratta in fondo solo di un dipinto, di olio e pigmento su tela…

 

“Davide e Golia” olio su tela cm 90×90 , 2025, collezione privata Copenhagen

Il predominio delle riviste specializzate, solo qualche anno fa fondamentale fonte di divulgazione e di comunicazione, è svanito? A fronte di cosa?

Oggi siamo finalmente testimoni di un processo molto forte di disintermediazione dovuto ai social media. Avevo scritto un articolo per una rivista Americana (Artpulse) nel 2009 sull’argomento.

Dicevo che un qualsiasi ragazzino con un website (al tempo non potevo prevedere l’arrivo di Instagram) avrebbe avuto la capacità di costruire la sua audience facendo completamente a meno del sistema. Sta succedendo esattamente questo. Le riviste, per così dire, le si fanno su Instagram: chiunque può aprire una nuova pagina e fare una scelta di dipinti ordinati secondo il suo gusto, si tratta solo di immagini, non ci sono parole, nessuno le leggerebbe. Avevo definito in quell’articolo i social media in generale come la “Radio per le immagini”.

Un artista ha più necessità di un critico, di una galleria o di un social media?

Ha bisogno di tutte le diverse cose, ma in proporzioni molto diverse da ciò che avveniva anche solo 5 anni fa. Oggi la galleria non è più in grado inventarsi artisti di sana pianta come si faceva negli anni novanta mettendosi d’accordo con curatori, riviste e direttori di museo. Le gallerie vanno sempre di più alla ricerca degli artisti con più followers, e ancora di più fanno ciò gli organizzatori di mostre che, sulla base del numero di followers, sanno che ci sarà più o meno afflusso di spettatori paganti.

Cosa ritieni sia successo? Cosa pensi del sistema dell’arte di oggi?

​Il vecchio sistema sta svanendo, forse l’artista sta tornando al centro ed è lui a produrre il sistema. Si stanno creando nuove figure che lo affiancano soprattutto nel campo della comunicazione del suo lavoro sui social.

Da decenni si continua a dibattere sulla morte della pittura che viene ritenuta del tutto anacronistica.

E’ questo stesso dibattere su questi temi che oramai è del tutto anacronistico: anche nel campo dell’arte contemporanea più stretta non c’è altro che pittura figurativa. Solo in Italia ci si attarda ancora con pratiche poveriste, quelle sì, del tutto nostalgiche e fuori tempo massimo. Ma non è un caso che ciò accada in un paese come il nostro.

Parliamo di te. Dove sei nato, come hai cominciato?
Sono nato a Verona e cresciuto in campagna in provincia di Vicenza (Noventa Vicentina), ho cominciato prestissimo a disegnare e modellare statuine con la creta. A 5 anni volevo fare lo scultore e riuscii a convincere mio padre a portarmi ad un laboratorio di scalpellini della zona dove volevo imparare il mestiere, ovviamente non mi vollero fra i piedi e quindi mi dedicai a disegnare e dipingere copiando spasmodicamente Caravaggio e Botticelli, Michelangelo e Correggio dai molti libri d’arte che avevo a casa. Poi a 9 anni iniziai a frequentare lo studio di un frate pittore a Lonigo, Fra’ Terenzio, da cui ricevetti la mia impostazione di tipo classicista-accademico per la quale lo ringrazio ancora oggi dopo 50 anni.

Hai ancora radici lì?
No, direi di no, anche mia madre si è spostata dal paesino dove sono cresciuto.

Che ricordi hai delle tue ambizioni adolescenziali?
Sono le stesse che ho ancora ora, diciamo che sono un po’ migliorato nella capacità di realizzarle…. Oltre a dipingere e modellare immaginavo di costruire navi e palazzi, spettacoli di marionette e scenografie. Tormentavo i miei fratelli coinvolgendoli nelle mie imprese irrealizzabili. Forse il fatto di abitare in campagna non mi faceva sentire limiti a quello che pensavo potessi realizzare. Mi ricordo che, avrò avuto 9 o 10 anni, mi misi in testa di costruire un galeone spagnolo che avevo visto in una rivista: presi un’ascia dal laboratorio di mio padre, andai nel bosco dietro casa e cominciai ad abbattere un albero…dopo una decina di colpi desistetti esausto… Per molto tempo ero abituato a veder fallire tutte le mi iniziative, ma poi le cose cominciarono a funzionare: nel disegno e nella pittura tutto era possibile.

Quando ti sei accorto del tuo talento? Come si è evoluto il tuo lavoro?
Ho iniziato così presto a prendermi sul serio, ritenendo che sarei divenuto senz’altro un pittore, che non ho mai avvertito nessuna discontinuità fra un prima e un dopo. A 5 anni ho scoperto Caravaggio che mi ha letteralmente fulminato, ma lo scoprii perché cercavo, nei libri che avevo a disposizione a casa, una cosa che mi assillava: come ottenere il colore giusto della pelle. Una vera evoluzione c’è stata comunque quando sono uscito da una lunga fase di lavoro su commissione per cominciare a lavorare su temi che fossero veramente miei, verso i 27/28 anni. Da lì in poi sono diventato committente di me stesso.

Il tuo lavoro è sempre coerente negli anni nello stile pittorico e scultoreo, lontano dei gruppi di catalogazione / omologazione, hai qualche rapporto “simbiotico” con qualche artista?
Forse l’artista al quale mi sento più vicino è Kurt Kauper, un artista americano che vive a New York. Mi ha aiutato molto la visione del suo lavoro, sul finire degli anni ‘90 e l’inizio dei 2000, per definire meglio ciò che erano i miei scopi soprattutto dal punto di vista delle tematiche che andavo affrontando. Quando poi ci conoscemmo di persona, lui stesso mi disse che il mio lavoro lo aveva molto influenzato. Forse, in quel senso, è il rapporto più simbiotico che ho costruito con un altro artista.

Sei riconosciuto per la tecnica iperrealista con scene dinamiche, in movimento, con personaggi fluttuanti, immortali un momento esatto in cui sta accadendo qualcosa di preciso, azioni del tutto improbabili e surreali…

Molto spesso la mia viene definita una tecnica iperrealista. Nulla di più lontano dal vero. Non ho nulla a che fare con l’iperrealismo che è movimento che considera la fotografia come la matrice dell’immagine pittorica. Nel mio caso le immagini provengono da un lungo processo di costruzione che parte da un foglio bianco e da una matita, gli strumenti attraverso i quali attivo l’immaginazione che mi porta ad individuare il “motivo”, la necessità che il quadro poi venga alla luce. I miei dipinti sono molto finiti, è vero, ma un pittore iperrealista, vero e proprio, non mi considererebbe mai parte del suo campo: lui (o lei) dipinge una foto, io costruisco una realtà parallela della quale poi restituisco l’immagine più efficace.

Usi una tecnica tradizionale, manierista, perfetta dal punto di vista formale e tecnico, nel contenuto usi immagini tragiche, soggetti prevalentemente maschili, spesso volanti. Cosa significa?

La tecnica così precisa e “perfetta”, come tu dici, ha lo scopo di dare credibilità a ciò che viene rappresentato, a me non interessa mostrare la pittura in sé.
La “pittura” non è il tema del mio dipingere, non mi interessa mostrare che sono un pittore…è una concezione dell’arte che sinceramente detesto.
Mi interessa e mi affascina enormemente invece il potere della pittura di popolare il mondo di figure costituite del metter insieme l’interno della mente con l’esterno del mondo.
La pittura è la tecnica attraverso la quale si possono creare le immagini più potenti in assoluto, dalla notte dei tempi fino ad ora, e senz’altro questo vale anche per il futuro. Per quanto riguarda l’assenza di gravità delle mie figure, il cadere e il loro contorcersi ci potrebbero essere molte spiegazioni, ci sto ancora ragionando.

Cosa intendi comunicare e lasciare con la tua arte? Che tematiche cerchi di affrontare?
Se ben ricordo David Hockney disse che le cose più belle nell’arte sono le cose più antiche, fatte a mano con perizia impensabile ai giorni nostri. Oggi è sempre più diffuso l’uso dell’IA che, a mio parere, porterà al declino della coscienza individuale e collettiva, con un affievolimento totale della spontanea creatività. Mi preoccupa l’inabissarci diffuso nel potere del “logos”. Con il mio lavoro intendo principalmente porre attenzione sull’unità della figura del genere umano, immutata al di là del tempo. Nell’arte il progresso è una cosa relativa, il tempo non esiste, non ha modificato la centralità della rappresentazione. L’umanità si è espressa al meglio all’inizio della sua storia e la pittura è la prova visibile della sostanziale immutabilità dell’umano, e che quindi il tempo non esiste. Vorrei far capire che la pittura, come tutti gli strumenti tecnici di cui ci si avvale, è uno strumento conoscitivi importante, una specie di arma, un mezzo potente, attuale e politico, che può mettere in crisi ogni volontà di progetto teleologico.

Una critica che si muove introno alla tecnica pittorica classica figurativa è che sia una forma di retorica, una retorica della forma.
Per me il compito dell’arte è proprio quello di realizzare la forma, ovvero di mostrare che gli eventi che accadono mostrano l’esistenza di un senso proprio attraverso la forma che è a loro sottesa. Lo si fa però attraverso la messa in opera di un processo dialettico dove l’immagine si scontra con le narrative lineari che è chiamata a materializzare. Il tempo lineare, proprio di ogni narrativa, viene compresso nello spazio dell’immagine pittorica e scultorea. La forma vuole manifestarsi nel mondo e lo fa proprio attraverso l’arte, la forma è l’evidenza, altrimenti inattingibile, del senso delle cose del mondo. L’errore massimo, secondo il mio punto di vista, sta nel separare i termini di questa relazione dialettica, cosa che è stata perpetrata infinitamente durante il corso della modernità. Ci si è adoperati in tutti i modi affinché non si realizzasse mai più l’unità degli opposti della dialettica originaria. La forma in sé è divenuta l’astrazione e dall’altra parte si è posta la fotografia, o l’oggetto in sé, spogliati di ogni possibile forma. L’opera è il luogo dove si tiene insieme il conflitto dialettico fra opposti, i termini separati sono oggetti vuoti.

Il tuo lavoro così perfezionista può risultare fuori tempo e anacronistico?
Era molto che non mi veniva fatta una osservazione di questo genere, eppure è vero che spesso me lo sono sentito dire, ma soprattutto in passato. Per come vedo io la storia non esistono anacronismi o scollamenti temporali. La storia non è un processo omogeneo lineare che tende verso un fine per cui ci si debba impegnare tutti a realizzarlo, anzi, la storia è una lotta fra diverse fazioni che cercano l’egemonia e il potere. Ognuna di queste fazioni è portatrice di un progetto che spesso è dichiaratamente antinomico nei suoi fini rispetto ai suoi competitori. Io mi faccio sicuramente interprete di un progetto che per molti anni è stato considerato perdente, o addirittura morto e sepolto. Allo stesso modo anche i poteri egemoni non sono tali per sempre, per cui credo che, a partire dalla crisi sistemica che sta attraversando tutti i baluardi dello status quo, molto presto ci si renderà conto che di tempi ne sono sempre esistiti molti e che io, come altri, faccio parte di un tempo altro.

Con chi lavori adesso, come promuovi il tuo lavoro?
Lavoro con varie gallerie in Italia e all’estero, promuovo il mio lavoro attraverso i social e le mie relazioni personali dirette.

Ritieni di avercela fatta?
No, non ce l’avrò mai “fatta”, nel senso che normalmente si intende. Le mie ambizioni sono sempre state troppo grandi fin dall’inizio. Allo stesso modo però sento che ho attraversato momenti molto più difficili di quello che sto vivendo ora, e che la storia sta andando sicuramente verso la direzione che ho sempre auspicato. Diciamo che oggi mi sento di dire che ho costruito qualcosa di solido su cui poggiare.

 

“Menade che assale un pastore” olio su tavola, cm 35×50, collezione privata Napoli


Andrea Salvino nel suo commiato a Luca Beatrice dice che insieme hanno fatto molte mostre del cazzo (oltre a cose belle) e che queste mostre sono una tradizione in Italia. Il “Modello italiano” è così stereotipato e scontato?

La tradizione Italica delle mostre del “cazzo” deriva dalla marginalizzazione nella quale la pittura nel nostro paese è stata tenuta negli ultimi decenni.
Se i musei non vogliono esporre i quadri figurativi, che sono sicuramente parte delle radici più profonde della cultura Italiana, è ovvio che la pittura sopravviva ai margini del sistema, con tutto ciò che ne consegue.
La maggior parte dei musei e del sistema si sono inventati un mondo fittizio dove si ipotizza una Italia che non conta nulla a livello internazionale ma che tiene occupati gli spazi istituzionali in modo che l’arte che invece corrisponde alla nostra Tradizione non possa mai essere rappresentata. Ecco spiegato il perché delle mostre del “cazzo”.

Lo scenario italiano fa discutere più per le mancate opportunità, modestia, annunciato declino culturale e disorganizzazione complessiva del sistema, come ritieni si possa uscire da questo baratro?
Se ne esce soltanto con l’indebolimento di ciò’ che ci ha oppresso negli ultimi 80 anni a livello di organizzazioni internazionali e militari. C’è qualcuno che ci sta dando dentro in questo senso in questi giorni, vediamo se sapremo approfittarne o se andremo in cerca del prossimo oppressore verso cui genufletterci una volta in più.

La pittura non ha più la “capacità” richiesta e privilegiata dal sistema, superata, come sembra, da tecniche digitali contemporanee attraverso l’uso anche dell’intelligenza artificiale.
Come dicevo i sistemi sono più di uno e il sistema che oggi dichiara il superamento della pittura (cosa che va avanti da almeno un secolo) sta finendo. In tutte le fiere, gallerie, mostre e social media ci sono solo quadri e sculture. Io credo che al contrario la pittura diventerà sempre più importante nel contesto che oggi si sta manifestando proprio perché terrà sempre più il punto su ciò che è l’umano. La pittura figurativa è una forma di resistenza antropologica, forse la più profonda.

Come spieghi questa evidente carenza di modernità?
Ogni Paese è caratterizzato dalle proprie radici culturali, io sono vissuto 14 anni negli Stati Uniti di cui 10 con una donna giapponese per cui, per un po’ di tempo, ho potuto mettere a confronto direttamente, e quotidianamente, almeno tre sistemi culturali. Credo ci siano molte più somiglianze fra noi e Giappone piuttosto che con gli Stati uniti. Il nostro fondo culturale, decisamente politeista, si connette perfettamente con un paese che non ha mai conosciuto il monoteismo come il Giappone. Non c’entriamo nulla invece con la matrice puritana degli stati Uniti, per cui la nostra “carenza di modernità” che sembra così evidente, corrisponde semplicemente ad una differente impostazione antropologica. Ciò che ci sembra unitario, la narrazione egemone, e che ci fa sentire indietro o inferiori va visto invece in termini di differenza. Esistono faglie geopolitiche, religiose e generalmente culturali incolmabili anche solamente in Europa. Alla fine dei conti gli Italiani (e guarda caso anche i giapponesi) vivono 10 anni di media di più degli Statunitensi che sono stati sicuramente il paese egemone per gli ultimi 80 anni di storia, per cui, a conti fatti non mi sembra che quella modernità tanto agognata produca risultati così interessanti. Se facciamo riferimento a questo parametro noi siamo decisamente più avanti. Una volta che riusciremo a liberarci della nefasta influenza delle elites al servizio del colonialismo globalista, tutto risulterà nella sua vera luce e che i ritardi, l’essere indietro mentre altri sono più avanti etc. etc. risulteranno solo parole vuote.

Quanto opere fai in un anno?
Poche, forse 10, alcune anche enormi, ma vorrei farne anche meno per potermi dedicare meglio ad ognuna di loro.

Ricordo che hai modificato – e cambiato radicalmente – una grande opera dopo l’esposizione in un museo, cambi ancora le opere dopo averle finite?
Mi capita spesso di voler cambiare un’opera, anche dopo la pubblicazione di un catalogo.

Leggevi molto: quali sono le tue ispirazioni letterarie?
Da ragazzino mi ha influenzato Nietzsche ma poi crescendo, mi ha anche un po’ stufato, oggi mi affascina il filosofo francese Alain de Benoist che ha scritto il libro “Come si può essere pagani?”, l’egittologo tedesco Jan Assmann Monoteismo; in genere mi affascina tutta la letteratura iconoclastia e, per stare in Italia, ammiro il lavoro di Giorgio Colli.

Che modelli musicali hai?
Mi piace la musica rinascimentale, barocca e quella della prima metà del 900.  Stimo molto il lavoro del compositore Goffredo Petrassi, che è stato maestro di Enrico Morricone e un attento collezionista d’arte. A volte mi diletto a comporre liriche, suono la chitarra elettrica, il pianoforte ed il liuto.

Hai ritratto Pier Paolo Pasolini con una mostra interamente dedicatagli.
Io stesso da bambino volevo essere come Michelangelo (repubblicano, che poi lavorava per i papi) o Caravaggio, ma con l’età mi sono trovato di fronte al rifiuto da parte dell’arte contemporanea, perché dopo Duchamp, o la “scoperta” della fotografia, era ritenuto inutile dipingere e così ho lottato per difendere la mia posizione di pittore da attacchi continui.
Pasolini ha una forma biografica molto precisa e il suo passaggio si trasforma da intellettuale ritenuto anticonformista in un corpo a disposizione dei media.
Fondamentale per me è stata l’intervista che Pasolini fece a Ezra Pound, a Venezia, due titani della poesia, provenienti da mondi opposti, che si sono visti lottare per difendere la loro identità poetica. Pasolini amava Petrarca, Pound ammirava Dante ed entrambi, a poco a poco, cominciano ad allontanarsi dalla poesia per poter essere accettati.
Pasolini cercava ispirazione nei luoghi più bassi della società, io ho dipinto puttane ed hooligans perché ritengo che i corpi producono e rappresentino storie dando il senso di continuità dell’umano immodificato in tutto il percorso dell’arte.

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