
Quella che state per leggere è la storia di un “dilettante” di lusso, un classe 1925 con un archivio di fotografie per troppi anni rimasto al chiuso. A cento anni dalla nascita, Paolo Di Paolo è a Palazzo Ducale
Anno 1953, Paolo Di Paolo (Larino, 1925; Termoli, 2023) se ne andava in giro a immortalare la Roma del dopoguerra con la sua Leica IIIC: all’interno delle Mura Aureliane, nelle zone subito fuori da quella cinta, nella periferia. Chi è più in intimità con la Capitale passerà parecchi minuti su ogni scatto, a geolocalizzare i vari punti che compongono la sezione Esordi della mostra Paolo Di Paolo – Fotografie ritrovate, a cura di Silvia Di Paolo e Giovanna Calvenzi. Chi lo è meno andrà probabilmente dritto al sodo, concentrandosi sin da subito sui dettagli narrativi. Quindi sarà solo un fatto di tempistiche: prima o dopo tutti noteranno una città presa non dall’alto della sua monumentalità, ma ad altezza uomo. Al di là di alcune ricercate “astrazioni”, come è capitato di definirle allo stesso Di Paolo, quella è una Roma a portata di vita, di ricordo familiare, autentica più che iconica. Una metropoli dove l’ordinario fa più notizia dello straordinario. Per dire: San Pietro non è la basilica di fama mondiale, il Cup(p)olone dei romani, ma il contesto – umano e non – che ci gira intorno. In quel 1953 alcune di queste fotografie riempirono le pagine della rivista Montaggio, lunga cinque uscite. Sempre in quell’anno nasceva il mito di Di Paolo.
Comunicare con la fotografia
Nelle varie interviste, Di Paolo ha sempre sottolineato la capacità comunicativa della fotografia, svincolandola da qualsiasi elemento testuale estraneo. In mostra lo si sente parlare dell’esperienza presso Il Mondo, dove la fotografia «Doveva essere scritta bene», perché – nella sua testa come in quella del direttore Mario Pannunzio – le immagini tra le pagine di quel settimanale dovevano correre da sole, comunicare da sole. Dato che i progetti espositivi hanno sempre un côté educativo, incassiamo il nostro insegnamento: la pretesa di testualizzare certe immagini ha poco senso. Anche perché certe immagini non puoi proprio testualizzarle, a meno che tu non ne sia l’autore: provincia di Benevento, 1960, un bambino povero e malato «S’impettì, il suo sguardo divenne di sfida» al cospetto dell’obbiettivo di Di Paolo, già uomo di punta del settimanale Il Mondo. A distanza di anni, il fotografo ancora si vergognava per aver pensato e realizzato quello scatto, giudicandolo «Irriverente, facile e gratuito». Inutile fare paragoni col nuovo Millennio e sottolineare che non l’aveva nemmeno trattato da marionetta: in fondo era stato solo sé stesso, nient’altro che un bambino.

Sotto il sole di Genova
Nel percorso mostra non poteva mancare la virata alla volta di Genova, cui ovviamente è stata dedicata una sezione ad hoc. La Genova degli anziani assiepati intorno a una partita di bocce, dei cantieri Ansaldo e del porto, ma anche della spensieratezza della gente in costume sotto il sole. Gente che Di Paolo ha immortalato nel suo saper stare gomito a gomito su strapiombi non proprio comodi, quelli che per chi frequenta certi punti della costa ligure sono il migliore dei lettini. E se agli occhi d’oggi quei costumi sono terribilmente démodé, quel tetris umano resta un grande classico. Sempre a portata di ricordo familiare, lo abbiamo detto prima e lo ripetiamo qui.
Una carriera breve e non scontata
Una carriera breve, dal 1953 al 1968, interrotta a causa di tempi e modi che tra il finire dei ’60 e l’inizio dei ’70 non combaciavano più col pensiero di un fotografo che, parola della direttrice Ilaria Bonacossa, aver portato a Palazzo Ducale è scelta «Non scontata». Così come non scontato è l’approccio alla professione dello stesso Di Paolo, per quanto già detto e per episodi come il reportage sull’inaugurazione dell’autostrada del Sole, nel tratto Roma-Firenze il 4 ottobre 1964. Una macchina che passa, primo piano di un bambino con un gatto in braccio e quella nuovissima striscia di asfalto calcata da una Fiat 850. La campagna in primo piano, la strada in secondo. Niente pomposità da premieré da passare alla storia. Niente che potesse piacere alla redazione del rotocalco Tempo. Niente che potesse avere pretesa d’essere pubblicato. E infatti non lo fu: Di Paolo tenne per sé quelle foto.


L’empatia del “dilettante”
Silvia Di Paolo dice che suo padre «Riusciva a creare empatia con i soggetti», per questo nella sezione Ritratti si ritrovano «Situazioni inusuali». Ve lo immaginate Giuseppe Ungaretti sorridente a giocare col suo gatto? Con Di Paolo sì. Oriana Fallaci allegra e spensierata a Venezia, lontana dall’immagine «Sempre cupa e accigliata» che, a detta del fotografo, la contraddistingueva? Con Di Paolo sì. E una diva come Kim Novak intenta a stirare in una stanza del Grand Hotel di Roma, o un bellissimo Marcello Mastroianni nella malinconia della mensa di una Cinecittà senza lustrini? In un contributo video è lo stesso Di Paolo a raccontare la genesi del servizio ad Anna Magnani nella sua villa al Circeo, così come quello a Pier Paolo Pasolini, con cui aveva collaborato nel 1959 a Tempo, in occasione del reportage estivo La lunga strada di sabbia. Progetto che evidenziò i contrasti narrativi tra i due (copiamo pari pari dal pannello di sala: «Lui cercava un mondo perduto, di fantasmi letterari, un’Italia che non c’era più – ricorda Di Paolo -, io cercavo Un’Italia che guardava al futuro»), ma che non impedì fiducia e stima reciproci. Così, nel 1970, Pasolini chiese a Di Paolo un servizio fotografico. Così, secondo Di Paolo, è nata quella che «Considero la foto della mia vita». Pasolini, un ragazzo, il Monte dei cocci, il Gazometro, gli elementi di uno scatto che non ci prendiamo la briga di appesantire con ulteriori descrizioni. Però ci prendiamo la briga di chiudere con le parole del fotografo, sintesi di una carriera e del perché una retrospettiva che lo riguarda andrebbe prescritta in dosi massicce: «Mi sono sempre considerato un dilettante, ovvero chi fa qualcosa per diletto, per piacere».














