
Ho un quadro. È un quadro piccolo, non è bello ma mi piace molto, rappresenta una marina, siccome non ha titolo ne ho inventato uno io: Elegia della fine. È un quadro che ho sotto gli occhi da cinquant’anni, era nella casa di famiglia e ora è nella mia. È entrato in casa in un modo, per me, assolutamente straordinario, ecco come.
Siamo intorno alla metà degli anni Settanta, d’estate andiamo a fare la vacanza al mare a Jesolo, un luogo esotico per quanti, come me, hanno avuto un’infanzia popolare. Siamo mia mamma, le mie due sorelle ed io. A Jesolo ci arriviamo con la corriera, si dorme in un appartamentino in affitto, la giornata si passa in spiaggia (sabbia&salsedine), la sera si passeggia sul lungomare punteggiato di ristoranti e bar, negozi per turisti, sale giochi futuristiche, cinema che proiettano solo film di Bud Spencer e Terence Hill e irresistibili attrazioni come i disegnatori di caricature, insomma, tutto quello che ci si aspetta di trovare in una località balnear-popolare alla metà degli anni Settanta nel nord Italia.
Ma c’è dell’altro: una galleria d’arte con serate dedicate alla vendita all’asta. Tra tutte le attrazioni che Jesolo può offrire è senz’altro quella più arcana e incomprensibile, per lo meno per un bambino come me, il cinema, la sala giochi, la gelateria, sono facili da capire, ma la casa d’asta è un concetto nuovo e misterioso. Si entra in un’ampia sala, ai mie occhi di ottenne addirittura enorme, con soffitti altissimi come una cattedrale, molto luminosa, quasi abbagliante, con una platea di sedie di plastica allineate e rivolte verso la parete di fondo dove c’è un piccolo pulpito con la postazione del banditore. Il banditore, mi sembra, parla in un microfono, accanto a lui c’è il cavalletto con i quadri all’incanto. Il mio ricordo di bambino senz’altro ingigantisce e trasforma ma in fondo la casa d’aste di Jesolo non è così diversa da Sotheby di Londra. Comunque, la mamma ci porta a vedere le aste, ci sediamo in mezzo alla sala e guardiamo questo spettacolo con i quadri che sfilano, le braccia alzate, le offerte e favolosi turbinii di soldi (si fa per dire, siamo a Jesolo, mica a Londra). Ovviamente penso che questo è appunto uno spettacolo, qualcosa a cui assistere guardando da lontano quasi abbagliati da tanto splendore, e che mai potremmo partecipare ed essere in quel turbine, in quell’incanto, ma una sera… una sera ecco che la mamma alza un braccio e fa un’offerta: chi offre di più? e uno e due e tre! aggiudicato alla bella signora con i capelli rossi con quei tre marmocchi appresso.

Che dire? È un vero shock, è accaduto qualcosa di assolutamente imprevisto, addirittura inconcepibile, la mamma, cioè noi, siamo nello spettacolo, in quella stessa luce, nello stesso turbine. Per “quel” bambino di otto anni è un’esperienza trasformativa, sebbene inconsapevole. E che emozione vedere quel quadro, fino a un minuto prima guardato da lontano, creduto irraggiungibile, come ogni altro quadro appeso in quella favolosa galleria d’arte, finire in un pacchetto; che emozione vedere la mamma con quel pacchetto sotto il braccio che pulsa e irradia mistero neanche fosse radioattivo. E che emozione portare a casa il pacchetto, aprirlo, essere consapevole che quella cornice contiene una vera opera d’arte; che emozione capire che quel quadro adesso è “nostro” cioè mio; che emozione sentire, sapere di poter avvicinare, addirittura toccare una vera opera d’arte. Per “quel” bambino a cui piace disegnare, che comincia ad essere affascinato dai quadri, attirato dalle immagini neanche fossero dei magneti, quel quadro è, evidentemente, molto più di un oggetto qualsiasi comprato al mare per divertimento balneare (quando ho chiesto a mia madre perché l’ha preso ha risposto: così, mi piaceva, e basta), quel quadro è il primo gradino di una scala che porta dentro al mondo.

Questo ricordo è indissolubilmente legato a questo mio piccolo quadro e, ovviamente, lo rende un’opera molto preziosa, sebbene di nessun valore, costava pochissimo all’epoca e infatti la mamma ha potuto comprarlo, e vale pochissimo oggi. Poi questo ricordo si è naturalmente affievolito, consolidandosi nella memoria come un rumore di fondo, fino quasi a scomparire. Però, recentemente è riaffiorato quando ho scartato un pacchetto ricevuto per corriere che conteneva un’opera grafica di un artista molto amato che mia moglie ed io ci siamo comperati (così, ci piaceva, e basta). Ho provato un’emozione della stessa natura di quella provata da “quel” bambino, anzi, probabilmente la “stessa” emozione e, per questo, forse più preziosa dell’opera che ho scartato – la quale, detto per inciso, non è costata quindicimila lire come il quadretto.
Così, finalmente, ho capito anch’io – ci sono arrivato tardi, lo ammetto, ma ci sono arrivato e sono contento – cos’è il collezionismo, qual’è la fonte da cui nasce questa strana passione che consuma e nutre intere esistenze: ritornare alla sorgente di quell’emozione che ci ha fatto salire il primo gradino per entrare dentro al mondo. Per qualcuno è un quadro, per qualcun altro, magari, una cartolina vintage, per altri un disco, una bambola, un sasso… poco importa, quale che sia l’oggetto che pulsa di mistero avvolto nella carta del pacchetto che stiamo per aprire, sappiamo che, in fondo, non è l’oggetto ma è quell’emozione antica, sorgiva, incorrotta contenuta nell’oggetto a farci palpitare.
Ah, dimenticavo: grazie mamma per aver comprato quel quadretto.











