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Dare corpo a un’azione. Intervista a Jan Fabre

Jan Fabre. Ph. Stephan Vanfleteren Jan Fabre. Ph. Stephan Vanfleteren
Jan Fabre. Ph. Stephan Vanfleteren
Jan Fabre. Ph. Stephan Vanfleteren
In occasione della personale di Jan Fabre presso la sede trevigiana di 21Gallery, abbiamo avuto modo di intervistare il celebre artista belga

Nelle sue opere, siamo spesso abituati a vedere materiali diversi. L’ultima volta che l’abbiamo visto da 21Gallery, esponeva un teschio ricoperto di coralli, mentre oggi ritorna al più classico marmo di Carrara. Da cosa deriva questa sua attenzione ad una pluralità di materiali? Ce n’è uno in particolare che predilige?
I materiali hanno una sensualità intrinseca che ispira il mio lavoro. La carnalità del corallo con il suo rosso sangue così come la purezza bianca del marmo delicato rendono questi due materiali profondamente sexy. Inoltre sono affascinato dai materiali naturali, dal loro essere vivi e cangianti. Ogni materia conserva in sé una pluralità di storie che accompagnano e accrescono quella delle mie opere, sia per il loro significato simbolico che per il loro uso nella tradizione scultorea. Nella mostra Allegory of Caritas avevo scelto il corallo, usato nella tradizione pittorica napoletana per simboleggiare il fuoco del vulcano, perché la mostra raccontava legami di sangue e di vita, l’amore e il mistero di una vita che stava per nascere. In questa mostra, in corso alla 21Gallery di Treviso, il marmo di Carrara si collega con la scultura classica del passato e i suoi miti, ma trasportandola in storie personali. Sono omaggi ad alcune persone importanti, che continuano ad ispirare la mia arte: Robert Stroud, l’ornitologo di Alcatraz e mio fratello defunto Emiel Fabre; il grande chitarrista Django Reinhardt e mio figlio Django Gennaro Fabre.

In questa mostra torna a tecniche più canoniche come la scultura e il disegno, che lasciano comunque stupiti per l’utilizzo che ne fa. La sua è una sfida alla storia dell’arte nei suoi propri termini o un omaggio postmoderno?
Io disegno e scrivo continuamente, l’unione tra immagine e parola è la cellula fondante di tutto il mio lavoro. Ho iniziato disegnando con mio padre, che mi portava allo zoo o alla Rubens House per copiare disegnando i corpi animali e i capolavori della storia dell’arte. Il disegno è l’anima del lavoro di un artista, espressione del pensiero più intimo e istintivo. Nel disegno non puoi mentire, si vede la reale intenzione. Nella serie Songs of the Gypsies, in mostra alla 21Gallery, ho disegnato su dipinti realizzati da mio figlio Django quando aveva un anno e mezzo. Quel colore libero ma ragionato (decide sempre lui quando l’opera è finita) mi ha ispirato a disegnarci sopra dei simboli legati alla vita e all’opera del grande chitarrista gipsy Django Reinhardt. La scultura è un mezzo potente per raggiungere una fisicità, per dare corpo ad un’azione. Le mie sculture sono sempre azioni, metaforiche ma anche corporee, come i tre grandi marmi in mostra che raffigurano mio figlio Django nell’atto di gattonare (The Partisan of Art), in quello di volare (The Freefaller of Art), in quello di fare il segno della pace (The Peacemaker of Art).

 

Veduta della mostra Jan Fabre. Songs of the Canaries e Songs of the Gypsies, 21Gallery, Villorba (TV), 2025. Ph. Federico Beccari
Veduta della mostra Jan Fabre. Songs of the Canaries e Songs of the Gypsies, 21Gallery, Villorba (TV), 2025. Ph. Federico Beccari

The Man Who Measures His Own Planet riprende una delle sue opere più celebri, The Man Who Measures The Clouds, ma c’è qualcosa di diverso: la scala si è allargata, dall’atmosferica alla planetaria. In questa versione, l’uomo ha la scatola cranica aperta: un fil rouge visivo verso Songs of the Canaries, un rimando al suo lato più sanguinolento o un invito ad altro? Se vede il cervello umano come territorio da esplorare, lei cosa vi ricerca?
Il cervello è la parte più sexy del corpo umano. È un pianeta ancora in gran parte inesplorato. Da oltre trent’anni anni faccio ricerca sul cervello umano e ho collaborato con grandi neuroscienziati come l’italiano Giacomo Rizzolatti, scopritore dei neuroni-specchio. Quella sul cervello è una ricerca senza fine, sono profondamente affascinato da questo astro siderale che abbiamo tra le orecchie, responsabile dei nostri sentimenti e sensazioni. Quello che cerco è forse l’origine delle idee, cerco di immaginare e rappresentare il funzionamento delle sinapsi, che gli scienziati hanno dimostrato essere simili ai filamenti che esistono nell’universo. La serie di disegni Songs of the Canaries è un tentativo di disegnare l’unione tra i neuroni umani e quelli dei canarini, oggetto degli studi del famoso ornitologo Robert Stroud, prigioniero di Alcatraz a cui questa mostra è dedicata. Il nostro cervello ci conferisce il potere dell’immaginazione, come lo faccia è un mistero, ma è il grado più alto di libertà che possiamo avere come esseri umani. Il potere dell’immaginazione è sconfinato, così come l’universo stesso, per questo ho disegnato neuroni e sinapsi su fogli di carta preparati con il Vantablack, il nero più nero in assoluto usato anche in ambito aerospaziale.

Vincenzo Trione, nel suo saggio L’opera interminabile, annovera la parola “nuvole” nel suo sillabario 21 parole per il XXI secolo, rimandando proprio a The Man Who Measures The Clouds, che trae direttamente ispirazione da una frase di Stroud, altro personaggio importante all’interno di questa mostra. Trione suggerisce che l’azione di misurare le nuvole alluda “alla trascendenza, senza, tuttavia, rappresentarla”; sarebbe credere “in quel niente che, […] può essere fonte di libertà – necessità poetica ed esistenziale”. Sarebbe, in altre parole, compiere un’analisi scientificamente razionale di un oggetto sfuggente: lei crede ancora in questa utopia ottimistica, tesa ai grandi obiettivi, o ha cambiato l’interpretazione che aveva di quest’opera?
L’opera a cui lei fa riferimento, L’uomo che misura le nuvole, è un omaggio a mio fratello Emiel Fabre, morto prematuramente. Ho realizzato una prima versione di quest’opera in argilla, nel 1978, e solo in seguito, quando ho avuto più soldi, ho potuto realizzarla in bronzo. Il corpo è mio e il volto è una proiezione di come sarebbe stato Emiel alla mia età. La trascendenza e l’idea di un “oltre” sono presenti in quest’opera, utopica per sua stessa costituzione. Ed è anche la rappresentazione metaforica dell’artista, che con mezzi semplici (una scaletta da biblioteca e un metro da geometra) si spinge nel tentativo utopico di misurare l’incommensurabile, di rappresentare ciò che sfugge continuamente a una forma definita. Non credo che si tratti di raggiungere un obiettivo o di aspirare al nulla. Credo piuttosto nell’azione anarchica dell’arte, in quella dell’amore, negli istinti potenti che appagano il bisogno poetico ed esistenziale, anzi, forse lo affamano continuamente.

 

Veduta della mostra Jan Fabre. Songs of the Canaries e Songs of the Gypsies, 21Gallery, Villorba (TV), 2025. Ph. Federico Beccari
Veduta della mostra Jan Fabre. Songs of the Canaries e Songs of the Gypsies, 21Gallery, Villorba (TV), 2025. Ph. Federico Beccari

Songs of the Canaries, trattando gli uccellini ed il cervello come elementi principali, esplicita un legame intelligibile con l’uso frequente che fa della metafora uomo-natura; in questo caso, come va interpretato? Il canarino rimanda anche alla sua terra d’origine e all’utilizzo che ne veniva fatto nelle miniere come strumento d’allarme. In questo senso, lei lo reimpiega come strumento di dominio dell’uomo sulla natura? Oppure, tali opere sono definibili vanitas?
Credo che tutto il mio lavoro abbia a che fare con la metamorfosi uomo/animale e animale/uomo. Gli animali sono i migliori filosofi e dottori al mondo, osservarli può essere di grande insegnamento. I canarini, in particolare protagonisti di questa mostra, sono sempre stati utilizzati come sentinelle, nelle miniere, per valutare la qualità dell’aria, essendo loro ancora più sensibili di noi. Nella mia nazione, il Belgio, questi canarini sono una vera istituzione, celebrati anche in importanti contest canori. Invece di avere la presunzione di dominare gli animali, dovremmo imparare da loro e lasciarci ispirare. Certamente la mia cultura visiva si è sviluppata osservando le vanitas fiamminghe, per esempio i dipinti di Jacob Jordaens, Frans Snyders, Paul de Vos, e osservando i disegni di animali dei maestri fiamminghi. Tutt’ora sono grande fonte di ispirazione per la mia arte.

Altrettanto interessante è vederla tornare al disegno. Per l’occasione, su Vantablack, alternato all’utilizzo di tempera per bambini e pastelli colorati, un binomio insolito, contrastante. Può dirci di più?
Come ho già detto, disegno continuamente, giorno e notte. Per me il disegno ha un’autonomia totale, non è schizzo per l’opera pittorica o scultorea. In questa mostra, nel caso di Songs of the Gypsies i disegni sono delle opere realizzate a 4 mani con mio figlio Django Gennaro Fabre. Lui ha steso la tempera colorata, io ho disegnato sopra a matita. Qui i fogli sono semplici A4 che Django usa per i suoi disegni. Nella seconda installazione Songs of the Canaries, ho scelto il vantablack, il nero più nero in assoluto, come sfondo per la rappresentazione dei filamenti neuronali simili a quelli cosmici. Qui c’è più contrasto con il bianco delle sculture, mi piace il contrasto tra questi due opposti, come lo yin e lo yang.

 

Veduta della mostra Jan Fabre. Songs of the Canaries e Songs of the Gypsies, 21Gallery, Villorba (TV), 2025. Ph. Federico Beccari
Veduta della mostra Jan Fabre. Songs of the Canaries e Songs of the Gypsies, 21Gallery, Villorba (TV), 2025. Ph. Federico Beccari

Le opere in cui compare suo figlio – appartenenti a Songs of the Gypsies – invece, sembrano richiamare un lato più dolce, paterno, legato al sentimento della famiglia, già presente nella dedica al fratello. Da cosa derivano le scelte del soggetto e di ingigantirne le dimensioni? Un infante dalle dimensioni adulte ed in marmo di Carrara: un connubio che incuriosisce, può approfondirlo per noi?
Le tre sculture di Django hanno esattamente la mia altezza. Mi interessava giocare con le proporzioni della statuaria classica e anche ribaltare il punto di vista che solitamente si ha verso una creatura più piccola di noi. Ripensare il concetto di fragilità. Le azioni che svolgono i tre neonati sono importanti: The Partisan (of Art) è come un soldato in difesa della bellezza e dell’arte; The Freefaller (of Art) fa un salto nel vuoto, necessario a qualsiasi creazione artistica; The Peacemaker (of Art) compie un gesto di benedizione ma anche il gesto della pace, tanto semplice quanto potente.

In parallelo alla mostra, ad ottobre si è svolta la seconda edizione del Festival Fabre al Teatro Out Off di Milano, dal titolo Jan Fabre e Mino Bertoldo: 40 anni di poesia della resistenza. Anche in questo contesto, le sue opere teatrali raccontano di un binomio in cui l’equilibrio è sempre in bilico, fra soprusi e conflitti. Non manca qui invece la presenza della violenza sotto diversi aspetti. Pensa che la mostra e il festival siano complementari in questo senso?
La mostra è dedicata a quattro persone importanti, che mi ispirano nella mia vita e nella mia arte. In un certo senso anche il festival ha celebrato un rapporto umano, un’amicizia lunga 40 anni, fatta di vita e di arte, con il visionario direttore del teatro Outoff Mino Bertoldo. Mino ha sempre sostenuto il mio lavoro, fin dal mio esordio, e ho profondo rispetto per la sua serietà, la sua è una vera vocazione all’arte, alla bellezza e alla libertà creativa. Il conflitto fa parte della vita e così anche l’arte lo contiene e lo rappresenta. Come la morte fa parte della vita, si tratta di campi di forza che si compenetrano e non esistono l’uno senza l’altro. Sul palco di questa edizione del festival, i guerrieri della bellezza Cédric Charron, Annabelle Chambon, Irene Urciuoli e Ivana Iozic rappresentano diverse sfaccettature dell’animo umano. Sono performer straordinari, in grado di incarnare completamente conflitti e riconciliazioni, di infondere il loro corpo con il potere trasformativo dell’arte e della passione. Questi “guerrieri della bellezza” mi hanno sempre ispirato a scrivere per loro, a creare per loro. Allo stesso tempo, come regista non sono nessuno senza di loro, sono le cellule nervose della mia arte teatrale. Sono loro a creare l’attrito; senza attrito non c’è lucentezza.

Fra gli spettacoli presentati, Il re del plagio è un monologo simbolico e particolarmente interessante. Sembra essere un ritratto accurato dell’artista contemporaneo e sintomatico dell’attuale sistema dell’arte. È così? Qual è la sua interpretazione del panorama artistico odierno?
Il re del plagio è un mio monologo andato in scena per la prima volta all’Opéra-theâtre di Avignone nel 2005. La drammaturgia è di Miet Martens, fantastica drammaturga con cui collaboro tutt’ora, da oltre quarant’anni. Lo spettacolo andato in scena all’Outoff è stato adattato drammaturgicamente e interpretato dal bravissimo Roberto Trifirò. Si tratta di una sorta di “manifesto” sull’arte e sulla mia idea di posizione dell’artista nel mondo. Il protagonista è l’artista-ciarlatano, che difende l’imitazione come strumento di bellezza e di fragilità per creare e, allo stesso tempo, per plasmare la propria identità artistica. Nel mio lavoro ho associato la posizione dell’artista nella società a varie situazioni e persino animali. L’artista-gangster, l’artista-cane randagio, l’artista-verme, l’artista-clown…  Il re del plagio è un angelo che vuole diventare uomo, che vuole rinunciare alla sua immortalità ed essere ascoltato da un tribunale composto da “scimmie chiacchierine”, per essere ammesso nell’olimpo dell’umanità. Il re del plagio combatte contro l’ossessione dell’originalità, della purezza e del fondamentalismo creativo, temi attuali nel panorama artistico odierno dove la tecnologia sempre più sofisticata pone il tema dell’originalità ancora più in primo piano.

 

Veduta della mostra Jan Fabre. Songs of the Canaries e Songs of the Gypsies, 21Gallery, Villorba (TV), 2025. Ph. Marco Zambon - Frameday
Veduta della mostra Jan Fabre. Songs of the Canaries e Songs of the Gypsies, 21Gallery, Villorba (TV), 2025. Ph. Marco Zambon – Frameday

Punto focale del suo lavoro è sempre e comunque la metamorfosi. Come la interpreta per questa personale da 21Gallery?
Un tema chiave del mio lavoro è la metamorfosi uomo/animale e animale/uomo. Ma certamente noi stessi, come esseri umani, siamo in continuo mutamento, il nostro corpo cambia ogni giorno che passa e la nostra pelle conserva traccia di tutti i passaggi. Credo che questa metamorfosi di cui siamo attori e spettatori sia uno degli aspetti più interessanti della vita. Adesso vedo mio figlio Django crescere, formarsi e sviluppare la sua personalità, che rispecchierà sempre di più anche il suo aspetto esteriore. Il chitarrista Django Reinhardt e l’ornitologo di Alcatraz Robert Strout, a cui questa mostra è dedicata, sono maestri di immaginazione e trasformazione. Hanno saputo trasformare un grave svantaggio in forza, sono riusciti ad eccellere nell’estrema difficoltà. Credo nel potere trasformativo dell’arte.

La sua arte, teatrale o figurativa, appare sempre in bilico, fra assurda e plausibile, speranzosa e nichilista, metaforica e quotidiana. Crede che un giorno troverà una soluzione univoca per la sua arte?
Sto scrivendo questo libro utopico che probabilmente non finirò mai nel corso della mia vita. Il titolo del libro è “LA FILOSOFIA DELL’AMORE È ARTE”, questa filosofia collega sempre i tre “io”, l’istinto (il sesso), l’intuizione (il cuore) e l’intelligenza (il cervello).

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