
Tanto per esser chiari: il nome di una galleria è qualcosa di molto difficile da decidere. C’è chi opta per il proprio cognome, c’è chi s’inventa un codice, c’è chi pensa e ripensa così a lungo la scelta che anche le nespole fanno in tempo a maturare sulla paglia. È poi vero che oggi le gallerie si chiamano con abbreviazioni da start-up e scelgono nomi da coworking o password Wi-Fi, ma c’è stato un tempo in cui le gallerie avevano le zampe e correvano più o meno forte.
Alcuni esempi? La Tartaruga, Il Cavallino, L’Ariete e molto altro. Beninteso: queste gallerie non denotavano da parte dei fondatori solo forti simpatie per gli animali, ma a ogni titolo scelto corrispondeva una caratteristica presa a prestito. Quando Carlo Cardazzo inventò il Cavallino a Venezia nel 1942, durante la seconda guerra mondiale, si riferì ovviamente al cavallino veneziano (emblema tradizionale) e ai quattro cavalli in bronzo dorato che per secoli svettarono sulla facciata della Basilica di San Marco prima dell’avvento del Napoleone solito, ma in pratica decise che, sebbene tutta l’Italia fosse ferma per colpa della fase bellica, l’arte doveva comunque darsi una mossa. E il Cavallino corse forte tra Tancredi, Vedova e Fontana, spingendosi fino alla fotografia o al design e fino ad aprire addirittura una succursale milanese chiamata la Galleria del Naviglio, che espose l’avanguardia artistica fin dall’inizio e che dopo la guerra instaurò un sodalizio con la Galleria di Plinio De Martiis, che stava a Roma, e si chiamava – guarda caso – La Tartaruga. In queste due gallerie passò il gota del nostro settore: Burri, Schifano, Rauschenberg, Warhol, De Kooning, Kounellis, Sam Francis, Castellani, Manzoni eccetera eccetera, e che mi fa dire con sfiducia: “ma io, cosa ho venduto finora?”. La Tartaruga, a proposito, indicava lentezza e riflessione, in contrapposizione all’effimero dell’arte di consumo e a quell’Italia che correva verso il boom economico.

E proprio quella saggezza scelta come bandiera le permise di anticipare il mercato globale dell’arte e di portare in Italia le prime personali di Franz Kline e Cy Twombly, tra gli altri. In quegli anni nacque anche la Galleria dell’Ariete, stanziatasi a Milano dal 1955, quando Beatrice Monti della Corte, dopo aver frequentato fin dall’adolescenza, a Capri, scrittori e artisti come Alberto Moravia, Elsa Morante, Graham Greene o Curzio Malaparte, decise di aprire il suo spazio e di darsi da fare per esporre supremi maestri tra i quali Francis Bacon e Antoni Tàpies, gli amici Fontana e Tadini, ricevendo le visite frequenti di Montale, Calvino e altri intellettuali del periodo. Ma torniamo a capo, perché il nome non lascia dubbio: indica la forza d’urto! Vero è che era il suo segno zodiacale, ma l’ariete (l’animale) non osserva, fa di più: sfonda. E spalanca le finestre dell’arte contribuendo a trasformare Milano da città industriosa a capitale della cultura. La galleria produsse inoltre dei magnifici piccoli cataloghi che tutti dovremmo collezionare. Io ne ho alcuni: quello di Cy con un testo di Gillo Dorfles che attacca con una frase curiosa che potrebbe risultare boettiana: “Dove ha inizio l’ordine, nel disordine dei segni di Cy Twombly‘”. Quello di Enrico Castellani, con un testo suo, quelli di Gilberto Zorio e Fausto Melotti, quello di Michelangelo Pistoletto con uno scritto di Tommaso Trini, quello di Mochetti, e anche quello di Kounellis con una presentazione di Carla Lonzi che termina con queste righe: “se un desiderio profondo dell’uomo è di non trovare resistenza nella realtà, Kounellis ci presenta un mondo che corrisponde alla flessuosità delle sollecitazioni psichiche”.

Ma prima di andare in aceto o risultare noioso, ritorno al mio elenco e alle fatto/galle-rie del titolo, con una sfilza di esempi che dovrebbero bastare a spiegarmi. La Galleria dell’Elefante di Treviso non so quanto grande fosse ma sicuramente beneficiò del nome che simboleggia saggezza, forza e intelligenza, ed è altrettanto sicuro che fu attiva dal 1964, prima a Mestre, e dal 1966 a Venezia. L’Elefante si concentrò sin dalla sua apertura sulle ricerche di avanguardia, dalla Pop Art al Nouveau Réalisme, che in quegli anni a Venezia trovavano riscontro soltanto presso la galleria Del Leone. Tra le mostre organizzate si ricordano con piacere la prima retrospettiva dedicata a Tancredi, allora recentemente scomparso, la mostra di Gioli, l’American Supermarket, del 1965, in cui fu ricreato all’interno della galleria un vero supermercato con opere della scena americana alternate a reali oggetti di consumo, e la grande mostra sulla Pop Art con cui inaugurò la sede veneziana, quando vennero esposti oltre sessanta lavori di artisti magnifici tra cui Warhol, Lichtenstein, Dine, Oldenburg, Rosenquist e compagnia cantante, e che venne realizzata in collaborazione con la galleria parigina di Leo Castelli e Ileana Sonnabend, sua moglie. Tralasciando il fatto che, come ricordava Cesare Misserotti in un suo scritto del 2014, la mostra American Supermarket fu quasi ignorata dal pubblico e dalla critica subdola che si prese gioco dell’evento sottolineando che la “galleria esponeva polpette” addirittura (riferendosi alle opere di Claes Oldenburg), quel c’è di buono – oltre alle polpette – in queste righe, è che noi abbiamo incluso un altro amico animale: il Leone! E La Galleria del Leone di Venezia fu anch’essa attiva negli anni ’60 e ’70, con il leone che richiamava il simbolo della città e una certa pretesa di essere dominante e re, tanto da esporre Getulio Alviani e Piero Manzoni, Christo già nel ’63 e pure Anna Maria Gelmi, esattamente dieci anni più tardi.

Un’altra galleria che per cinquant’anni esatti prese il volo fu Il Gabbiano di La Spezia, fondata nel 1968 da una dozzina di artisti, attivissima nel campo dell’arte concettuale e dell’arte povera, tanto che espose artisti allora alle prime armi come Alighiero Boetti, Vincenzo Agnetti, Giulio Paolini, Claudio Parmiggiani e altri, e il nome Gabbiano richiamava la libertà e l’apertura, molto coerente con la ricerca presentata. Ma in ambito zoo-artistico anche l’estero regala molto e, senza approfondire troppo, registro certe Gallerie L’Oiseau, con un nome che pare molto gettonato e che si ritrova spesso scelto anche da più spazi in Francia e Svizzera.

Esistono almeno una White Dog Gallery a Weil am Rhein, una Red Fox Gallery a New York che ora “is popping up nearby soon” ma non accetta nuovi artisti, e io li capisco. La Blue Horse Gallery nella Contea di Donegal di Marina Hamilton che si definisce “pittrice e scultrice equestre”, tanto per esseri coerenti, e la White Rabbit Gallery di Sydney, in Australia, che è una delle più importanti collezioni private di arte cinese contemporanea. Ma rientro presto tra i confini a me più noti e provo a chiedere a ChatGPT se dimentico qualcuno o qualcosa. E la diabolica intelligenza m’incalza suggerendo gallerie che non conosco: La Farfalla a Roma, Il Lupo a Milano, La Lepre a Bologna, Il Cobra a Torino… e mi sottolinea che ciascuna ha il proprio temperamento: la farfalla danza, il lupo fiuta, la lepre corre, il cobra è l’infinito… che io vi risparmio, perché qui mi fermo. E voi, che animale avreste voluto?
Nicola Mafessoni è gallerista, curatore, scrittore e amante di libri scritti bene. IG: nicolamafessoni













