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LA BUSSOLA DI AGO. Sia Gloria (di Vivaldi) a Michieletto!

Damiano Michieletto, Primavera Damiano Michieletto, Primavera
Damiano Michieletto, Primavera
Damiano Michieletto, Primavera
“Primavera” di Michieletto è un film d’autore a tutti gli effetti, che ha il pregio di arrivare al cuore di chiunque

– Buon Natale!

– Buon Natale anche a te! Le campane di mezzanotte suonano stavolta non soltanto per festeggiare la nascita del Bambinello…

– Per che cos’altro suonano, le campane di mezzanotte?

– Per l’uscita in sala di un film italiano (udite! udite!) bellissimo. Anche se da un po’ di tempo in qua i bei film italiani non sono più dei miracoli rari. Quest’annata ne è stata particolarmente generosa, dal “Fuori” di Mario Martone al magnifico Franco Maresco presentato a Venezia (“Un film fatto per Bene”), compresi l’”Orfeo” di Villoresi e quest’ultima perla che ci ritroviamo sotto l’albero per espressa volontà della distribuzione: “Primavera” di Damiano Michieletto.

– Sicché bello. C’era da aspettarselo?

– Secondo me sì. Anche se lo stesso Michieletto lo considera il suo primo “vero” lavoro cinematografico, non va dimenticato quel suo felice “Gianni Schicchi” che metteva in film l’opera di Puccini in termini squisitamente filmici, uscendo vittorioso dall’insidioso campo di battaglia del “film-opera”: si contano sulle dita di una mano sola, infatti, i casi di nozze riuscite tra il cinema e la lirica. Mentre quello “Schicchi”, che spostava l’azione dalla Firenze medievale alla Val d’Orcia contemporanea, cavalcava con successo il pedale dei parenti serpenti gretti, meschini e cattivi del cinema di Mario Monicelli e della Commedia all’Italiana.

– Come regista di opera, riconosciuto a livello internazionale tra le star dell’Olimpo Lirico, Michieletto non è nuovo a questo genere di aggiornamenti temporali, se non sbaglio.

– Non sbagli. C’è chi tra i melomani lo considera il grosso problema del teatro lirico odierno. Se da regista osi rispettare epoca e luoghi originali del libretto, per dire, di una “Bohème”, di una “Carmen” o di un “Cavaliere della Rosa” (senza contare tutto Wagner), vieni additato come feccia passatista e conservatrice. Poiché la verità come al solito è nel mezzo, va riconosciuta al nostro Damiano l’abilità di realizzare spettacoli audaci e astratti finché vuoi, ma imprescindibilmente collegati al flusso dalla partitura, della musica, come il recentissimo “Lohengrin” all’Opera di Roma, dove se per quattr’ore ti domandavi cosa cavolo significassero quelle uova pendule d’oro e d’argento (il Dubbio? La Verità? La Rinascita? Nessuno dei tre?), al termine della rappresentazione te ne uscivi col cuore e gli occhi gonfi di commozione perché al sublime soundtrack wagneriano lui aveva fatto corrispondere alla perfezione i movimenti delle masse corali, il gioco virtuosistico delle luci, e la riapparizione da vivo e vegeto di Goffredo bambino creduto morto… Non c’è mai, e dico mai, scollamento nelle regie liriche di Michieletto tra la musica e quanto si vede sulla scena, per quanto strampalata e/o avveniristica possa sembrare la sua ri-lettura.

– Anche questo suo film su Vivaldi è ambientato in epoche e luoghi diversi dalla Venezia di Tiepolo, Bellotto e Canaletto?

– “Il teatro è metafora, il cinema è realismo”: lo dice lui stesso, Michieletto. Per mettere in scena un’opera, del libretto lui tiene in conto esclusivamente i versi e le battute dei personaggi, e ignora le “didascalie”. Le didascalie, dice, sono come “i cartelli gialli di Venezia”: quelli che indicano “per Rialto” o “per San Marco” e che i turisti seguono a gregge, scattando tutti le stesse fotografie degli stessi identici scorci. I veneziani, o i turisti più arguti e curiosi, scelgono percorsi alternativi, e a San Marco ci arrivano magari cinque minuti più tardi, ma con scorci inauditi e fotografie inedite mai viste… Questo al cinema non si può fare: se racconti Vivaldi, devi per forza mostrare Venezia e i veneziani suoi contemporanei, altrimenti perdi in credibilità, e l’incantesimo non regge, non funziona.

– Gliela diamo per buona, dai.

– Effettivamente fila. Anche perché quando sei un regista, anzi un Signor regista, uno di quelli che di tensione narrativa e di qualità del racconto ne hanno quantità industriali sotto le unghie, tra i denti, e fin su per i capelli
– Michieletto, come pochi altri, è uno di quelli – sia che usi il cinema, o una pantomima muta, o racconti una barzelletta a tavola o al bar, tutto fila via ch’è un piacere. “Primavera” è un film “d’autore” a tutti gli effetti, ma anche comodamente inserito nel flusso di quel “mainstream” che ha il pregio, o almeno la potenzialità, di arrivare al cuore di chiunque. Ma poi, in fondo diciamola tutta: è un film italiano “in costume” dove a cercarla bene, nemmeno con la lente riesci a trovare una sbavatura, una fesseriòla, una di quelle classiche “cazzate” televisive all’italiana che in pochi secondi sono capaci di buttare tutto in vacca e di spezzare l’incantesimo.

 

Damiano Michieletto, Primavera
Damiano Michieletto, Primavera

– Tratto dal Premio Strega di Scarpa, se non ricordo male. Fedele alla fonte?

– Sì. No. O almeno sono riscontrabili nel film, “riscritto” dallo stesso Michieletto insieme a Ludovica Rampoldi, evidenti e sostanziose modifiche, ma soltanto nella parte finale (forse per sopraggiunte variazioni percettive recentemente fiorite attorno al concetto di “donna” o di “femmina” dall’entrata in vigore del MeToo e del Wokism – il libro è uscito nel 2009 – o forse, invece, per esigenze di offrire al pubblico di oggi una storia maggiormente aderente alle sensibilità più comuni e diffuse), di cui però l’approccio critico non dovrebbe, a mio parere, tener conto. Un libro e un film non gareggiano a chi dei due sia “più bello” (è un classico irricevibile la solennissima scemenza che “è sempre più bello il libro”). Per materialità, struttura e destinazione d’uso, un libro e un film non potrebbero essere oggetti più impensabili da confrontare. L’operazione di Michieletto parte dal romanzo epistolare di Tiziano Scarpa, scritto appunto in forma diaristica: la protagonista, l’orfana Cecilia rinchiusa in un convento, immagina di raccontare a una madre che non ha mai conosciuto tutto quello che vede e che le accade tra le mura di quella prigione che le esclude la conoscenza diretta del mondo reale. Un racconto per immagini deve mostrare, illustrare, senza lasciare alcuno spazio all’immaginazione: di questo realismo si prende cura Michieletto. E che cura! Ambienti, costumi, eloquio e dialetti, sono ricostruiti con la scrupolosità del grande intellettuale attento a non commettere errori per quel suo proprio bisogno di onestà inattaccabile che lo distingue dall’intellettuale disonesto o mediocre. Basterebbe soffermarsi a riguardare le numerose sequenze musicali (preparate insieme alle attrici da selezionati e meticolosissimi coach, e altrettanto virtuosisticamente editate da quel Re del Montaggio che è Walter Fasano), in cui le ragazze musiciste ospitate in convento suonano e pizzicano le corde degli archi sotto la direzione del nuovo, cagionevole e tormentato compositore, Antonio Vivaldi. Tra i due, cioè tra il “Prete rosso” (anche se l’ottimo Michele Riondino è conciato in modo da assomigliare come una goccia d’acqua a Tullio Solenghi) e Cecilia, una meravigliosa Tecla Insolia, vibratile come una fronda di ciliegio, nasce una crescente passione mai consumata, a tutto vantaggio della creatività dell’uno e della perizia musicale dell’altra. L’Orchestra del convento torna a conoscere gli antichi fasti, tutta Venezia accorre per ascoltare le orfane musicanti nascoste dietro i matronei, eseguire una musica “nuova”, sostanziata di una vitalità naturalistica che trova nell’imitazione dei rumori degli elementi e dei versi degli animali un logos mai udito prima per veicolare dolore, gioia, e fervore religioso.

– Per l’ambientazione musicale, ecclesiastica e veneta, ricorda, magari alla lontana ma neppure tanto, “Gloria!” di Margherita Vicario, uscito al cinema un anno e mezzo fa…

– Ecco, appunto: scordatelo. Nemmeno avrei voluto che lo citassi, perché adesso mi tocca diventare antipatico… Anzi no. Non ne voglio parlare proprio, ed eviterò ogni impietoso confronto dicendo che “Primavera” (vabbè, il riferimento è alla prima delle quattro composizioni planetariamente più conosciute di Vivaldi, ma questo lo avevi capito da te) è permeato di un “èsprit” femminista distantissimo da qualsiasi rivendicazione anti-patriarcale rompicoglioni: al contrario, la ragazza trova nell’arte e nella stima del Maestro (e come è sottile il filo che inizia via via a ricamare le trame di un sentimento in apparenza sempre più prossimo all’innamoramento, che tuttavia si arresta entro i confini del riconoscimento ammirato del talento artistico) quella forza interiore necessaria per conoscersi in profondità e riuscire a organizzare l’intero apparato delle proprie emozioni e delle proprie sensibilità per conquistare la libertà necessaria a diventare finalmente individui completi e consapevoli, in grado di determinare il proprio destino.
Tutto è condotto con il pudore del grande narratore, che conosce l’arte di non concedere al pubblico quello che vuole il pubblico, perché sa come condurlo a sé, stupirlo, sorprenderlo, convincerlo a darti retta.

– A sentirti parlare, questo “Primavera” avrebbe tutte le carte in regola per incantare le platee, e trovare spettatori anche nelle fiumane natalizie che affolleranno titoli, diciamo, più “pop”.

– Glielo auguro di cuore, perché uno sforzo del genere va premiato con riconoscenza “italiana”, anche tenendone conto alla prossima selezione delle candidature all’Oscar per il film straniero. Questa è l’Italia che piace agli americani: quella antica, cólta e bella, l’Italia della grande arte e della grande musica. L’Italia della Grande Bellezza, guarda caso. E chiudo questa conversazione con una breve menzione speciale per il compositore della colonna sonora, Fabio Massimo Capogrosso, già, come si suol dire, distintosi con onore sul campo firmando le colonne musicali di alcuni titoli recenti di Marco Bellocchio. Che ha fatto, il Maestro Capogrosso? Invece di mettersi a competere con Antonio Vivaldi, i cui brani originali si ascoltano a profusione nel film, hai presente quelle nature morte della pittura del ‘600 dove su tavoli e deschi coperti di tappeti preziosi giacciono in bella vista, accanto a spartiti aperti, clessidre, teschi e antiche statuette, strumenti musicali capovolti ricoperti di polvere cancellata dai polpastrelli di chi le ha evidentemente appena suonate e deposte in quella posizione qualche istante fa, tanto che sembrano ancora emettere il riverbero della musica che hanno prodotto? Ecco: la musica di Capogrosso, là dove non funge da vera e propria colonna sonora che sottolinea ed enfatizza diversi momenti del racconto, sembra voler evocare quegli echi ancora presenti nell’aria, e moltiplicarli come refoli di un vento impercettibile, fino a farli confondere con i sentimenti stessi delle orfane rinchiuse nel convento…

– Insomma, una teoria di eccellenze, questo “Primavera”.

– Serenissima teoria, sì. Come l’assoluto splendore della città in cui è stato girato, fotografata padreternamente da Daria D’Antonio, pittorica, asciutta, desaturata, cinerina, come solo a chi ci vive è dato vederla.

– Corro!

– Corri.

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