In sala dal 6 novembre Interstellar, il nuovo attesissimo film di Christopher Nolan.
Fin dagli inizi della sua ascesa a uno status di regista importante e riconosciuto internazionalmente, possiamo dividere la carriera di Christopher Nolan – da un punto di vista analitico, e non solo per comodità – in due direzioni ben precise: la parte più personale, “autoriale” in senso lato, comprendente Following, Memento, The Prestige e Inception, in cui il regista cerca di tenere disgiunti i tratti più caratterizzanti del suo cinema e il proprio status di Christopher Nolan, “autore” e che porta avanti il suo discorso al di fuori dalle logiche produttive impostegli; e la parte in cui si presta ad ottemperare esigenze puramente mainstream di un’industria costretta ad incassare come se non ce ne fosse mai abbastanza, con film quali Insomnia, Batman Begins, Il cavaliere oscuro e Il cavaliere oscuro – Il ritorno.
Dopo aver chiuso trionfalmente la trilogia su Batman, il regista inglese riprende il discorso lasciato a metà dalla trottola roteante di Inception e torna ad indagare i meandri della fantascienza in una trama dalle caratteristiche post-apocalittiche: in un futuro imprecisato, un drastico cambiamento climatico ha colpito duramente l’agricoltura. Un gruppo di scienziati, sfruttando un “wormhole” per superare le limitazioni fisiche del viaggio spaziale e coprire le immense distanze del viaggio interstellare, cercano di esplorare nuove dimensioni. Il granturco è l’unica coltivazione ancora in grado di crescere e loro sono intenzionati a trovare luoghi adatti a coltivarlo per il bene dell’umanità. Alla spedizione si unirà l’ingegnere Cooper (Matthew McConaughey) che sarà costretto ad abbandonare i suoi due figli.
Scritto insieme al fratello minore Jonathan sulla base dello strabordante saggio scientifico di Kip Thorne – uno dei maggiori esperti mondiali di relatività generale – Black Holes and Time Warps: Einstein’s Outrageous Legacy, Interstellar è il crocevia tra le due anime del suo cinema.
È innegabile infatti, che l’autore londinese sia uno dei pochi – se non l’unico – registi ad Hollywood capace di far sborsare ad una major 165 milioni di dollari per un film sci-fi come che non porta con sé la possibilità intrinseca di generare migliaia di forme di merchandise e spin-off, come avviene di consueto con tutte quelle produzioni multimilionarie che tutte le settimane invadono il mercato (lo stesso discorso valeva anche per Inception).
Per qualunque regista abbia l’ambizione di muoversi all’interno degli studios, Stanley Kubrick è senza ombra di dubbio l’esempio da perseguire. E Kubrick è anche il modello a cui guarda ininterrottamente Nolan come la dimostrazione di qualcuno che è stato in grado di fondere nei propri film idee personali ad un modello produttivo come quello hollywoodiano.
Se non si poteva fare a meno di mettere in relazione Inception con 2001: Odissea nello spazio, con Interstellar le carte vengono scoperte definitivamente. Lo si capisce anche semplice dalla tematica: la salvezza del genere umano. Il tiro è puntato decisamente più in alto, come soleva fare il regista newyorchese.
Benché apparentemente poco originale e a forte rischio edulcorazione, il plot di partenza viene completamente rovesciato da Nolan, che costruisce un film sì imperfetto, ma per la prima volta in carriera con “un cuore”. Oltre alla messa in scena spettacolare, alla grandiosità del formato IMAX, c’è qualcosa. E quel qualcosa è Christopher Nolan, un regista che a distanza di soli sedici anni dalla sua comparsa – con un film girato con 6.000 dollari, pellicola in bianco e nero per risparmiare – e una manciata di film diretti, è con ogni probabilità il più influente regista cinematografico della sua generazione. Ciò non significa il migliore, ma quantomeno uno dei più conosciuti e rappresentativi.
A livello visivo, Interstellar si snoda agile tra momenti riflessivi e grandiose sequenze mozzafiato, capaci di lasciare di stucco per la loro bellezza e perfezione. La dipartita di Wally Pfister alla fotografia pesa sino ad un certo punto, dato che Hoyte Van Hoytema dimostra coraggio e un pattern di intuizioni cromatiche degne di nota. La narrazione è accompagnata dallo score firmato da Hans Zimmer – giunto alla quarta collaborazione consecutiva con il regista inglese – che in più punti ha un fantasma philipglassiano, tanto affettivo quanto epico.
Ma al di là di tutti quei momenti estremamente virtuosistici in cui “Nolan deve fare Nolan”, Interstellar è permeato di un’atmosfera unica che mai il filmmaker era stato in grado di offrire.
Esagerando, Quentin Tarantino ha affermato che in alcuni momenti il film ha il respiro di alcuni capolavori di Terrence Malick e Andrej Tarkovskij. Quello che era sempre mancato a Nolan, troppo impegnato a orchestrare alla perfezioni i propri congegni narrativi, era l’anima. A fronte di un’abilità senza eguali nelle strategie della messa in scena, a nessun film il regista aveva mai partecipato emotivamente, limitandosi ad un distacco da mestierante di altissimo rango che, nel bene e nel male, lo contraddistingueva.
Interstellar è la dimostrazione di un artista che non si accontenta, che il salto sta provando a farlo a modo suo, parlando a suocera (patina da grande kolossal fantascientifico) perché nuora intenda (storia di un padre e dei suoi figli). Oltre all’intelligenza puramente cinematografica, esiste un Nolan altro.
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