La retrospettiva Damien Hirst allestita presso l’Astrup Fearnley Museet di Oslo stimola il visitatore a ripensare completamente ad una delle figure artistiche più controverse del panorama culturale degli ultimi vent’anni.
Merito della splendida location, un edificio in vetro e legno realizzato dalll’architetto italiano Renzo Piano che sembra galleggiare e si erge sovrano su una splendido fiordo della capitale norvegese, o dell’abilità dei curatori, la mostra offre uno spaccato dell’intera produzione artistica dell’ex enfant prodige di Bristol. E questa volta pare essere particolarmente riuscita se esperti e non possono tornare a casa con un briciolo di conoscenza in più su una figura così controversa dell’arte contemporanea.
Chi non conosce l’intento irrisorio, provocatorio delle opere dell’artista britannico. Eppure osservarle da vicino e senza pregiudizi, accompagnate dalla voce originale dell’artista che ripercorre la sua carriera, costringe a un analisi più approfondita.
Umilissimi gli esordi dell’artista. Nato a Bristol, nel ‘95 Hirst si trasferisce a Londra, nella zona di Forest Gate, East London, dove inizia a lavorare come muratore in un cantiere. Si rende conto però, fin da subito, di non appartenere a quell’ambiente e di voler fare arte. Per questo abbandona questa vita e si iscrive a un corso di fine art presso la Goldsmith University della capitale britannica. E’ qui che inizia l’avventura del giovane artista, che si ritrova a confrontarsi con altri allievi di corso, in una sorta di factory warholiana.
Filmati di repertorio raccontano delle sue prime installazioni, il tentativo di approcciarsi all’arte figurativa e poi, come una folgorazione, il primo contatto con l’arte concettuale. Come racconta Hirst stesso, è dal confronto con altri allievi della scuola che scaturisce la sua idea di lanciarsi in un’arte più concettuale.
“Vidi quello che faceva un mio compagno e mi resi conto che anche io, che non avevo particolare talento nella pittura tradizionale, avrei potuto avvicinarmi a questo tipo di arte”. E’ così che nascono i primi Dots, le rappresentazioni in sequenza di pallini colorati, Chloramphenicol Acetyltransferase, realizzati nel 1996, e oggi parte della retrospettiva in terra Scandinava dedicata all’artista.
La prima sala dell’edificio ospita la celebre coppia di Mother and Child (Divided) del 1993, esposti alla Biennale di Venezia nello stesso anno della loro creazione, e “God Alone Knows” del 2007. Le carcasse di animali sezionate e riempite di formaldeide sono enormi e riempiono l’intera sala. Sembrano quasi invadere l’occhio dello spettatore che li osserva disgustato tra esse. In un video in lontananza è anche possibile ripercorrere le fasi della lavorazione, dall’arrivo delle carcasse allo studio dell’artista fino alla lavorazione da parte dei collaboratori.
Lo stesso vale per Beautiful, amore, gasp, eyes going into the top of the head and fluttering painting, del 1997, parte di una serie descritta dall’artista stesso come “infantile, nel senso buono del termine”. Una serie di tele circolari realizzate su pedana rotante sulla quale l’artista seleziona i colori e si diverte a comporre.
Divertirsi, sperimentare, esorcizzare la morte, sembrano essere gli intenti di Hirst. La morte e la caducità sono quasi delle ossessioni per l’artista, declinate nelle diverse sperimentazioni. Non solo tele e animali vivisezionati. In fondo ad un corridoi difatti, una intera sala nera contiene una piccola teca di cristallo con il pezzo forte della mostra. E’ “For the Love of God”(2003), il celebre teschio totalmente ricoperto da diamanti, per la realizzazione del quale l’artista avrebbe speso 140 milioni di sterline e che, sempre a detta dello stesso Hirst, non avrebbe valore commerciale. “It’s not about the money”. La celeberrima opera è stata realizzata da Hirst nella sua casa di Baja, Messico, e liberamente ispirata al “Dia de los Muertos”, una delle tradizioni più importanti del paese dell’America Latina. In uno scorcio di un video, è possibile osservare l’artista che disegna da un teschio vero come modello, raccoglie le prime idee e schizzi su un foglio di carta.
“Art’s about life and it can’t really be about anything else … there isn’t anything else,” ovvero “L’arte parla della vita e non può che occuparsi di altro… non c’è nulla d’altro”. Dagli animali sezionati e conservati in enormi casse di vetro nella formaldeide, al celebre teschio con diamanti incastonati, fino a Leukaemia (2003), realizzato con insetti incollati su canvas nero, il mantra dell’artista rimane l’enigma della morte e il suo intreccio costante con la vita, la sua imprescindibilità da questa.
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Informazioni Utili:
Damien Hirst
16 Settembre – 15 Novembre 2015
Astrup Fearnley Museet
Strandpromenaden 2, 0252 Oslo
afmuseet.no