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Intorno allo spider journalism

 

INTORNO ALLO SPIDER JOURNALISM
Ovvero: della buona e cattiva scrittura

 


 Marcus Porcius Cato Major, Censor dicitur (Tusculum, 234-149 a.C.)

 Le recenti imposizioni alla professionalità degli anchor-men della tivù nazionale in nome di una sempre meno convincente applicazione delle norme di par-condicio, nonché alcune considerazioni che da tempo rimugino intorno alle caratteristiche della nostra critica d’arte (due aspetti di un’unica medaglia culturale) mi hanno spinto a riprendere alcuni appunti stesi qualche mese fa in occasione di una vicenda marginale del mondo artistico italiano (un premio) che si concluse con molto scompiglio e poche novità per tutti.

Una delle novità fu la straordinaria forza coagulante del web, bene esemplificata non solo dall’ episodio di casa nostra ma anche da un fatterello ormai antico riportato da Marco Pratellesi il 4 novembre scorso sul mediablog del Corriere della Sera. La storiella è paradigmatica del potere del Gruppo in rete, ma anche di quanto il Gruppo ecceda nell’illusorio convincimento che tutto sia lecito nella familiarità e immediatezza dello spazio virtuale.

A New York una ragazza ispanica di sedici anni trova in un taxi un cellulare che si rifiuta poi di restituire alla legittima proprietaria, riuscita, con l’aiuto di un amico informatico, a risalire sino a lei proprio attraverso il numero del telefono perduto. Dopo il gran rifiuto, l’amico riporta sul web l’accaduto e cerca di attirare l’attenzione dei navigatori. In breve, si raduna un copiosissimo numero di sostenitori della causa della sbadata conoscente, fra i quali alcuni si ingegnano a rintracciare immagini, informazioni e indirizzo privato dell’ispanica recalcitrante e persino producono e consegnano alla rete un video della sua abitazione. I dati personali di una cittadina sono raccolti e divulgati allo scopo di aggregare sempre più utenti contro costei. In seguito alla pressione di media e di gruppi internetofili, anche la polizia giunge alla conclusione che sia opportuno arrestare colei che è diventata, con un singolare salto di merito che poco ha a che vedere con il diritto, una ladruncola. Ma ecco il lieto fine: la smemorata proprietaria del cellulare, ritrovato il suo prezioso bene, magnanimamente ritira la denuncia e riconsegna alla vita di tutti i giorni l’improvvida ragazzina. Potenza del web e della giustizia-fai-da-te? Questo, ad ogni buon conto, è il mito eponimo dei nouveaux journalistes per Pratellesi. Ciò con cui ogni scrittore di cose contemporanee dovrebbe misurarsi da oggi in poi: l’assoluta indiscutibilità della dóxa, dell’opinione registrata presso la maggioranza, spesso dalla natura travolgente, ma che, come indicano i greci, non è necessariamente la verità.

La vicenda, tuttavia, si dovrebbe concludere con una bella denuncia contro gli improvvisati “poliziotti” per diffusione illecita di informazioni sulla persona, fra l’altro minorenne, la quale, al momento della divulgazione di dette informazioni, non era classificata penalmente e di certo non era consenziente a una simile pubblicità. Anche un avvocato alle prime armi, senza troppo penare, riuscirebbe a impartire una sonora lezione al gruppo di detectives della domenica recuperando una lauta parcella – pronuba di futuri successi per l’istruttiva costituzione di un precedente di class action all’inverso -, mentre la non più sprovveduta ragazzina, sonoramente riproducendo il “rumore” che Totò “fa con la bocca” alla fine del discorso del tenente Kessler nel film I Due Marescialli, ringrazierebbe internet per l’inaspettato quanto involontario regalo, contando e ricontando i proventi del generoso risarcimento.

Tale fatterello venne, in ulteriore passaggio, preso quale esempio edificante – ma altrettanto lacunoso delle mie considerazioni finali – dal critico Alessandro Trabucco, uno dei protagonisti della vicenda nostrana (il premio) per rinfocolare l’entusiasmo intorno all’inarrestabile emancipazione della verità del gruppo (una sorta di rinnovellato “deus vult“) rispetto alle più deboli opinioni dei singoli e alla forza dirompente del web, viatico di libertà.

A conclusione dell’anzidetta vicenda, conclusione che decretò vittoriose le istanze dei contestatori su internet, mentre annullò quelle dell’ artista vincitrice, il critico scrisse una nota (A. Trabucco, “Spider Journalism, ovvero, il giornalismo della retorica” in: Less is More, www.lobodilattice.com , pubblicato il 9.11.09) contro l’irritante marcescenza del pensiero occidentale avviluppato strettamente a vetuste quanto menzognere forme di comunicazione. Tanto più menzognere quanto più “vetuste”. Ma vetuste – e menzognere – in base a che? 

Le vie di internet sembrano infinite, quelle del cervello umano sono sempre le stesse. È controproducente attivare sistemi di difesa preventiva che portano solo a intolleranze irrazionali. Meglio piuttosto accendere i “recettori della critica” per stabilire non a-prioristicamente ciò che vale e ciò che non vale, ciò che ci convince e ciò che non ci persuade. Questo semplice assunto valga sia per soppesare i fatti come quelli della parabola newyorkese, sia per affrontare in modo autonomo ogni sfida intellettuale. Solo una mente aperta onora chi ha il pregio di farci modificare le nostre opinioni e, di certo, diveniamo più ricchi, non più poveri, se siamo in grado di assimilare gli indizi di altre suggestioni culturali.

Trabucco, confortato dall’allegoria pratellesiana, scocca frecce al curaro contro un costume letterario ormai desueto che impesterebbe perniciosamente le fragili, pargole menti degli Italiani tutti. Un costume che, secondo il critico, avrebbe le ore contate in attesa solo del colpo di grazia da parte della modernità purificatrice. Trattasi del cosiddetto spider journalism, metodo scrittorio di coloro che “si arrampicano sui vetri” della dialettica per distogliere proditoriamente il lettore dalla (testuale) “Veridicità del Giusto“, utilizzando satanicamente le ampollosità e gli artifici della retorica, male assoluto che il galahad-scrittore deve evitare, se vuole conquistare l’ambìto graal della consonanza con il suo pubblico.

Dietro alle ampollose e melliflue perifrasi e alle viscide e ammalianti aggettivazioni, albergherebbe un cervello malato, un corrosivo mostro attentatore della nostra illibatezza intellettuale, i cui strali vengono inferti con la protervia dell’apocalittico seminatore di morte. A costui dovremmo prestare somma attenzione per non lasciarci a nostra volta corrompere. Il tono, non c’è dubbio, rimanda a innumerevoli crociate dell’ortodossia contro la devianza, dei giusti contro i peccatori, dei puri contro gli impuri, dei buoni cattolici contro i Càtari (salvo che Arnaud Amaury, abate di Citeaux, durante la presa di Béziers del 1209, fece sterminare entrambi, nel dubbio di non sapere come distinguerli).

Ciò che pare incongruo nell’accorata lamentatio è che, almeno in questo caso, I Buoni Hanno Vinto Contro I Cattivi. Perché, allora, recriminare e protestare una virtù che fu pubblicamente riconosciuta? Per trascinare il prigione in trionfo dietro al duce vittorioso?

La realtà risalta in tutta la sua disarmante evidenza: considerare pericolosi, temere, i mezzi più elementari della retorica (che tutto è tranne che esercizio demoniaco e tutto è tranne che ampollosa, così come ben più correttamente insegna la sterminata bibliografia in merito) significa non conoscerli e svela una preoccupante impreparazione ad assolvere la professione di scrittore, peggio ancora di scrittore d’arte, che – per inclinazione e per mestiere – deve accogliere, comprendere e trasmettere ogni genere di idioma (visuale, filosofico…) anche il più lontano da sé, tenendo ben ferme le basi teoriche che, più ampie sono, più solidamente sopporteranno la costruzione di rappresentazioni “convincenti” del sistema culturale contemporaneo.

In effetti, noi tutti orfani, per abbandonata consuetudine, delle capacità per discernere gli strumenti di cui la nostra storia culturale ci rifornì per secoli, guardiamo con diffidenza chiunque si discosti nel tono e nei contenuti dalle argomentazioni correnti, che tanto più sono correnti quanto più sono semplicistiche ovvero pronte ad appiattire scartando ogni raffinatezza di pensiero nella tenace convinzione che comunicazione diffusa significhi sempre anche pregnanza di concetto. E, con fare disinvolto, bolliamo ciò che non (ri-)conosciamo come “…aberrazione, cioè deviazione da ciò che è normale…”. Locuzione lapidaria quanto d’incerta interpretazione. Ciò si traduce, oggigiorno, per il sistema dell’arte, nella fioritura incontrollata di scritti che poco fanno progredire il pensiero critico, fotografie di un’espressione e di un’esperienza semplificate, rettificate, poco argute e, infine, sciape, ma profondamente tranquillizzanti. Le infinite mostre pubbliche e private nate da improbabili assemblaggi e agglomerazioni a corollario delle poco interessanti opinioni dei molti scribacchini sono il penoso risultato di un’epoca senza idee nei contenuti e nelle forme, svuotata di cultura e priva di forti assunti teorici e, con un termine che aborro, “valoriali”.

Per evitare accuratamente la selezione, che presuppone poderosa conoscenza degli strumenti critici e della storia dell’arte, si istituiscono innumerevoli “gare” e si costituiscono innumerevoli giurie che candidamente assolvono all’unica funzione loro concessa: annullare il giudizio autonomo, forte, personale, distinguibile, un pensiero che dia corpo a una Scuola, ad un movimento. Gli artisti vengono fra loro contrapposti senza un reale motivo e in loro, in eterno esame, scatta la molla del particolarismo. Dìvide et impera? Non credo vi sia tale consapevolezza nei “giurati”. E, del resto, chi mai seleziona i selezionatori? Il circuito pare mosso da un impulso sconsolatamente casuale.

Secondo molti di noi, “chi non parla come me non è nel giusto”. Tuttavia chi definisce pericolosamente incantatore il contributo non immediatamente distinguibile secondo i canoni stabiliti dalla maggioranza (contributo che, dagli antropologi Boas e Lévi-Strauss, si deve allo “straniero”, portatore di cultura per antonomasia) è colui che sarà a propria volta spodestato alla prima occasione, non necessariamente dall’avversario, di regola dal sodale.

Questi assunti, infine, sembrano quasi profetici in relazione a quanto accade al mestiere di giornalista oggigiorno. L’auspicio di “far seccare l’inchiostro” a coloro che non siano motivati da un’etica superiore (dettata da chi, di grazia?) risuonano sinistramente in sintonia con la congerie di sentimenti che, con molte maggiori responsabilità e ripercussioni nella nostra vita quotidiana, in questi giorni precedenti le elezioni di fine marzo 2010, il Governo italiano ha determinato attraverso l’imposizione di una “misura” contenutistica televisiva che mal si concilia con la professionalità dei giornalisti conduttori di talk-show, questi ultimi considerati evidentemente come l’estensione del tinello della nostra ineffabile casta politica.

Ma l’Italia è sempre in lune pre-elettorali o all’erta per un premio artistico incombente. Ovvero, costantemente in agitazione per difendere posizioni di potere acquisito o da acquisire che poco hanno a che fare con l’interesse della comunità o l’interesse dell’arte. Si estenderà quindi ad libitum l’editto anti-opinione non massificata? Passerà la pretesa che qualcuno il quale, ritenendosi a torto o a ragione migliore di altri, può imporre le proprie modalità di percezione dei fenomeni culturali del nostro tempo (e, per me, “culturale” vale quanto “politico”)?

Lo stile è asettico e incolpevole: individua se mai una firma e, ogni tanto, un volto. E di stile parla Trabucco a noi così come il Governo alla RAI, attentissimi tutti a consolidare nell’opinione pubblica l’equipollenza (poco) logica che “stile=faziosità”.

Meglio appartenere al novero di chi pretende più voci, anche dissonanti, soprattutto dissonanti, piuttosto che far parte di un movimento censorio, costruito in forza di un millantato – ma assai poco condivisibile – Bene Comune. Come diceva quel “retoricissimo” tale? Non condivido le tue idee, ma sono disposto a morire per difendere il tuo diritto a esprimerle
 
 
per leggere l’articolo riferito alle vicende del Premio Cairo 2009, clicca qui

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