Su Paolo Poli, l’ultima diva “della Varietà”.
«Le istituzioni ecclesiastiche non riuscirono a recuperarmi, anzi. Sollevavo le gonne delle suore e quel che vedevo mi confortava nella mia omosessualità»
Come era nell’ordine naturale delle cose, siamo stati lasciati da Paolo Poli.
È curioso come sia stata in un certo speculare la sua vita: pur senza essere mai cambiato di una virgola, è stato avanti sul proprio tempo in gioventù, e reliquia di un’era non solo passata, ma anche dimenticata, in vecchiaia. Quando in Italia gli omosessuali conosciuti se si provava a contarli con una mano facevano avanzare almeno tre o quattro dita, lui era già ciò che è rimasto fino alla morte; e quando cento Democrazie Cristiane dopo si iniziò a parlare di matrimonio egualitario, Paolo Poli, come i più consapevoli tra quelli della sua generazione, definibile grossomodo come quella pre-AIDS, si ergeva sbigottito: «Il matrimonio tra gay non mi interessa, come non mi interessa quello tra uomo e donna. Io voglio seguire l’istinto e la perversione, non tornare a casa e trovare qualcuno che mi chiede cosa voglio per cena. “Caro, ti faccio la besciamella?” Fuggirei subito, con un principe o con un marinaio». Insomma -diceva in sostanza- quanto abbiamo fatto noi, e pagando quali prezzi, per liberarci del feroce conformismo piccolo-borghese, e voi volete tornare a tuffarvici dentro? Giusto che l’opinione corrente in merito oggi sia un’altra, ma è indubbio che la sua resti una posizione carica di fascino. In un paese in cui ci fosse una coscienza e una conoscenza gay del passato (ma ci accontenterebbe anche del presente), gli si sarebbero onorati tributi ben maggiori. Non che li avesse voluti. Ha passato gli ultimi decenni, anche prima di essere “riscoperto” da Fazio come santino della bella tv del passato, girando l’Italia con una compagnia di attori sciamannata, con atroci basi musicali alla pianola sintetica e scene formate da semplici teli dipinti: ma dipinti dal magico Lele Luzzati, compagnia capitanata da lui (spesso faceva tutte le voci, registrandole prima, e gli altri recitavano con delle maschere), e soprattutto i copioni, i copioni erano i suoi rutilanti collage di canzoni filastrocche prosa e poesia, dove Santa Rita da Cascia andava in estasi cantando Wanda Osiris, tutta una serata poteva essere dedicata a Palazzeschi, o ad Apuleio, o a Diderot (alto e basso, grande punto fermo della cultura gay appunto), e i formidabili bis erano sempre qualcosa di inaspettato come oscuri scapigliati col gusto del macabro o sciropposi autori per l’infanzia di primo Novecento. E forse stupiva anche questo di Paolo Poli, la sua sterminata memoria: ti mitragliava versi a migliaia, erede di una tradizione che va sempre più rarefacendosi. È interessante notare come nelle sue interviste trovasse sempre il modo di ficcarci la propria infanzia, che affermava sempre essere stata particolarmente felice, e le recite scolastiche: forse davvero, dobbiamo guardare a lui come a qualcuno che aveva trovato il modo di estendere per tutta la propria vita la prima e le seconde.