Henri Cartier-Bresson diceva che la fotografia è una relazione diretta tra occhio, mente e cuore. Francesco Faraci, per te che lavori come fotografo in Sicilia vale altrettanto?
Fotografare significa per forza di cose allineare occhi mente e cuore. Un fotografo è la sua opera, sono inscindibili. E’ energia che sgorga dritta dallo stomaco e poi si irradia in mille direzioni. Puro istinto e quello se non sei concentrato, in qualche modo allineato a te stesso, non viene fuori per principio. Sono tante e tutte strane le dinamiche di un fotografo. Siamo un po’ camaleonti, adattati e disadattati insieme, però, ciò che si è in fotografia viene sempre a galla, in un modo o nell’altro. Parlo del pensiero, della letteratura che abbiamo letto, della musica che abbiamo ascoltato. La fotografia è la somma delle nostre esperienze.
Che genere di fotografia prediligi e perché
Prediligo il reportage ma non amo le definizioni. Amo la fotografia quando c’è dietro un’idea, un ideale che sia anche utopico. Sento la fotografia come se scrivessi un unico grande libro. Sulla mia vita, su quella degli altri e che assuma così un significato universale. Partire dal basso per arrivare a toccare i propri limiti. Sono interessato alla fotografia che sa parlare, odora di terra e di salmastro. Faccio prima forse a dirti cosa non amo in realtà.
Dimmi cosa non ami in fotografia, allora
Non amo ciò che è patinato finto e artificiale. Si viaggia verso quella che secondo me è una inutile democratizzazione del mezzo fotografico, che è appunto solo un mezzo per arrivare a qualcosa ma che sembra invece diventato fondamentale nella riuscita di una buona fotografia. Trovo che molta fotografia di oggi generi un appiattimento. Sono pochi gli slanci, poche le idee davvero geniali e vedo invece tanti fotografi eccessivamente epigoni di altri. Penso a Luigi Ghiri ad esempio, a cui molti oggi si ispirano con non sempre buoni risultati. Ecco, auspicherei ad un ritorno alla sacralità, all’essenza di cui parlavo prima quando ho accennato alla terra e al salmastro. La ricerca è una cosa fondamentale, che viene prima della fotografia stessa, altrimenti è solo immagine e di quello oggi pare vivere il mondo intero.
Quando è diventato prevalente esprimerti attraverso la fotografia invece della scrittura.
Non so se posso parlare di prevalenza. Vivo in equilibrio, appeso a un filo che è il bisogno di esprimermi e la mia costante inquietudine. Parole e immagini ballano insieme, l’una influenza l’altra e viceversa. E’ come un ritmo, una musica che arriva improvvisa e tu non puoi fare altro che assecondarla e metterti a ballare.
Cosa c’è che mette insieme fotografia e letteratura.
Probabilmente la costanza. Sono la stessa faccia della medaglia per chi le frequenta entrambe con assiduità. E’ un meccanismo strano e non facilmente spiegabile ma sia nella scrittura che nella fotografia, pur con tutte le diversità del caso, ad essere scandagliate sono tutte le istanze degli animi umani. Entrambe attingono alla stessa fonte, che è la vita. Semplicemente si completano a vicenda.
Torniamo all’essenza. Quali sono le ricerche che stai portando avanti: Nomi, quelli già chiusi, quelli ancora aperti e da quanto tempi li hai intrapresi. In quali luoghi soprattutto.. Quali sono quelle di altri fotografi che ti attraggono di più.
Dunque, le ricerche che sto portando avanti sono diverse e tutte di lunga durata. Il progetto più lungo è quello sulle periferie delle città del Sud visto attraverso l’energia, i giochi e il quotidiano dei ragazzi in età adolescenziale e pre-adolescenziale. Cominciato nell’ottobre del 2014, ancora in corso ha come titolo “Malacarne” che è il nome con cui questi ragazzi vengono etichettati. Nel mezzo, arrivando ad oggi ci sono stati “Cupe Vampe” (Marzo 2015) in cui racconto un antico rito religioso, quello della vampa di Santa Giuseppe che si tiene da secoli nei quartieri popolari di Palermo. “Joy” (Aprile 2015) è stato prodotto in un parco di Barcelona. “Exile” invece è un progetto sull’integrazione della comunità africana a Palermo cominciato nell’agosto del 2015 e non ancora concluso. Nel 2016 ho cominciato invece questo viaggio fra i porti del Sud cercando di afferrare l’essenza delle nuove generazioni che hanno preso in mano le antiche tradizioni perpetrandole.
Riguardo alle ricerche altrui ad affascinarmi non è tanto il tema quanto la forza con cui si persegue un’idea, il dedicarcisi anima e corpo. Mi viene in mente ad esempio l’ultimo reportage di Francesco Cito sulla Sardegna. Ecco, quella è ricerca e dentro c’è tutto. In ognuna di quelle fotografie se tendi le orecchie riesci persino a sentire le voci ed è questo che una fotografia deve necessariamente fare.
Parliamo di ritmo. Quando metti insieme parole e immagini qual è il ritmo che segui di solito.
Il ritmo è quello della musica che viene fuori dalle finestre spalancate dei quartieri popolari della mia città. Il Rai algerino, il canto del muezzin a sera che richiama i fedeli alla preghiera. Amo il ritmo che ha una sua identità, il rebetiko ad esempio, la musica dei porti e dell’esilio. Le urla dei mercati, la voce di Rosa Balistreri, quella dei cantastorie. Questa è la mia musica.
E siamo di nuovo alla costanza. Interessante ascoltare un fotografo che parla di costanza. La tua cosa ti ha fatto scoprire nella pratica fotografica e cosa hai imparato invece dall’essere costante in fotografia.
La costanza, a mio modesto modo di vedere, è tutto per un fotografo che spesso invece si lascia volentieri andare alla pigrizia. Il movimento costante, battere ogni giorno le strade come se si fosse perennemente in viaggio apre delle porte e scatena una energia che magari fino a poco prima non si sapeva di avere. Per molti anni della mia vita sono stato una persona incostante, prendevo e lasciavo milioni di cose, perdendomi fra le righe ma forse succedeva perchè non avevo ancora trovato la mia strada, il mio modo di esprimermi, in ultimo e ritorniamo sempre li, non avevo ancora trovato la mia musica.
Nella tua musica c’è il colore o il bianco e nero?
La mia musica va dritta al punto, cerca sempre l’essenza. Non vuole confondere, si muove sui binari di chi vuole dire una cosa senza girarci troppo intorno. L’assolo, l’estetica serve a poco se dietro non c’è un batterista che tiene il tempo alla grande. La mia è musica in bianco e nero, non ho dubbi.
Frequento pochissimo il colore ma non è una scelta estetica quanto di espressione. Poi qualcuno dice che il grigio e il nero con le loro scale siano già dei colori. È una questione di scelte che si fanno per lo più di pancia.
Ultima esposizione e prossima in programma.
L’ultima esposizione è stata nella galleria del Teatro Garibaldi alla Kalsa di Palermo dal 18 dicembre al 18 Febbraio patrocinata dalla fondazione Ignazio Buttitta e dalla Regione Sicilia.
Dal 6 all’8 di maggio prossimo invece sarò all’interno del circuito off di Fotografia Europea.