Che il diavolo non abbia una bussola è noto. Il blues lo trova ai crocicchi. Vinicio Capossela pure. Con una differenza, “Canzoni della Cupa”, doppio album appena uscito e dal 28 in tour nei teatri con la prima parte, “Polvere”, è a misura degli uomini. Non dell’indefinito. Musicalmente è un lavoro eccellente, dove Alta Irpinia e sud ovest americano si fondono in una prodigiosa discesa nell’abisso. Sì, una delle note più intriganti di Capossela è il sincretismo, da sempre, ma qui sapere popolare e visioni che appartengono alla luce del mondo, quella che abbaglia nel deserto e quella che turba se solo affiora in penombra, danno vita a ballate e stornelli che segnano un punto rosso nella nostra canzone d’autore. O più semplicemente nella musica italiana.
Come il cerchietto che segnala l’imminente pericolo di essere sotto tiro, il distacco progressivo e inesorabile da un mondo senza tempo, quello della natura e delle terre da coltivare, e il mondo dell’orologio, come lo chiama Capossela, traccia una linea di non ritorno. <La cultura popolare ci ricorda proprio questo: la parte più oscura della natura> spiega <il diavolo c’è sempre, tanto vale farselo amico, e comunque l’ironia corrosiva propria di quel sapere antico non prende nulla sul serio, nemmeno la morte>.
La sua voce marcia con andamento preciso, insinuante. “L’acqua chiara alla fontana” parla di un adescamento diventa transazione economica dove la verginella ha l’approvazione della madre per cedere al bel cavaliere. E qui siamo in “Polvere”, dove tutto è arso dal sole. “Maddalena la castellana”, invece, e siamo in “Ombra”, cede a un maschio rude e focoso ma rimane incinta e quella colpa la deve togliere. Con dolore e sangue. <Sì, sono due storie complementari, ma il tema della clandestinità, nel secondo caso, è molto attuale anche oggi. L’aborto suscita problemi ci coscienza anche davanti a una legge. Insomma, tutto è carnale e feroce come lo era ieri>.
Mentre l’ascoltatore è trascinato nei mariachi, nei suoni dell’Arizona e del Messico, del Texas compensatore di vita e morte secondo regole ancestrali, Capossela non dimentica Matteo Salvatore e la lezione dei grandi folkmen del Sud. <Tutti qui alberga secondo il tempo del mito> dice <c’è una ballata finale, “Il treno”, dove un intero paese scompare al passaggio di un solo convoglio. E questo perché la comunità di ieri, da queste terre, io sono di Calitri, è emigrato inseguendo il progresso. Che è un tempo nuovo, sconosciuto prima, dove siamo precipitati tutti>.
Capossela sa benissimo di essere epico in “Canzoni della Cupa”: <Quando facevo le medie ero innamorato delle saghe e non necessariamente dei personaggi più eroici. Anzi più la materia narrativa mi sembrava povera e le figure incerte, più le amavo. Bisogna portare l’umanità al di là del tempo. E fare come Michelangelo, che asciugava e toglieva lasciando il bello>. Però bisogna saperlo scoprire. Quindi dedicatevi a questi due album. E buona fortuna.
Per gentile concessione de Il Secolo XIX (06.05.2016)