Arriva in home-video The End of the tour: quella volta in viaggio con David Foster Wallace.
«La maggiore dipendenza che ho avuto è stata la televisione».
David Foster Wallace
Arriva questo mese in edizione home-video The End of the tour (uscito in Italia con il titolo David – diventare se stessi), pellicola indipendente di James Ponsoldt, presentata al Sundance Film Festival nel 2015 e ispirata alle pagine di Come diventare se stessi (Minimum Fax), dettagliata cronaca di un’intervista mai uscita, fatta dall’allora redattore di Rolling Stone David Lipsky a David Foster Wallace durante l’ultima parte del tour promozionale di Infinite Jest, negli Stati Uniti.
James Ponsoldt e i suoi due protagonisti, Jesse Eisenberg (perfetto nel ruolo un po’ mellifluo di David Lipsky) e Jason Segel nei panni dell’autore che negli anni Novanta ha gettato un ponte sul nostro futuro Avant-Pop, lavorano in The End of the Tour a servizio del confronto tra i due autori, perché è da questo che scaturiranno le migliori suggestioni e intuizioni su fama, lavoro creativo, musica pop, televisione, cibo, depressione e dipendenze.
Era il 1995 e Lipsky convinse il celeberrimo direttore di Rolling Stone, Jann S. Wenner, – citato per tutto il film come «Jann», un’entità mediatica superiore cui i due autori-eroi fanno riferimento durante la loro avventura – ad assegnargli l’intervista, non solo in virtù del successo di Infinite Jest ma soprattutto per le voci circolanti sulle sue dipendenze da alcol ed eroina e sul tentato suicidio all’età di vent’anni. È probabilmente per la mancata messa a fuoco su questi aspetti personali dell’autore di Considera l’aragosta che Jann S. Wenner non pubblicò l’intervista e riassegnò Lipsky alla morte per overdose del cantante – oggi ormai carneade – Shannon Hoon.
Ponsoldt parte dal suicidio di David Foster Wallace nel 2008: una telefonata avverte Lipsky della morte dell’autore che anni prima aveva ammirato, invidiato e cercato di studiare. I media non hanno ancora diffuso la notizia, il web tace. Lipsky sa di trovarsi ancora in una zona liminale, in qualche modo analogica, in cui recuperare la sua personale memoria di David Foster Wallace. Si tratta dei nastri su cui, nel 1995, aveva accuratamente inciso ogni momento di quei cinque giorni insieme a Foster Wallace, ai tempi dell’intervista con «Rolling Stone». Capiremo solo più avanti, qual è il passaggio cui si sta aggrappando Lipsky: quello in cui Foster Wallace paventava l’espansione del World Wide Web, in un prossimo futuro dove il piacere pornografico dell’immagine avrà permeato totalmente la vita umana. «Non so tu, ma io dovrò lasciare il pianeta» dirà Foster Wallace in quell’occasione.
È dalla volontà di ricercare la portata visionaria e avanguardistica dell’autore di Infinite Jest che nasce il libro di Lipsky e da cui parte il film di Ponsoldt. Vi ritroviamo la volontà di comprendere quali sono gli aspetti reali e quali invece fanno parte del mito di un autore che dichiara di avere la televisione come unica dipendenza, che descrive il cibo come intrattenimento e che persino durante un viaggio in macchina verso l’aeroporto gioca con gli strumenti dell’Avant-Pop per proteggersi dall’occhio indiscreto dell’intervistatore: inventa falsi aneddoti sulla nascita del proprio nome, crea una mitologia sulla bandana che indossa e porta Lipsky nei territori del situazionismo, «ho sempre voluto fare un’intervista all’intervistatore», «hai frequentato una buona scuola per intervistatori?».Mentre Lipsky segue David Foster Wallace, dalla sua casa a Bloomington, Illinois fino a Minneapolis, fra reading, camere di hotel e sortite al centro commerciale, assistiamo al rimbalzo dei due autori nel caleidoscopico mondo della cultura pop: da Mary Tyler Moore ad Alanis Morissette (You Oughta Know cantata a squarciagola in macchina, di ritorno dal multisala), passando per O.J. Simpson e i Mall of America. La loro è una tenzone che dimostra quanto la cultura pop sia il principale riferimento in termini di immagini chiave e archetipi per i cittadini dei paesi postindustriali, in primis gli Stati Uniti d’America il cui simbolismo è il principale demone di David Foster Wallace.
La forza di The End of the Tour sta nello sguardo del coetaneo affascinato (Lipsky) sul genio inafferrabile (Foster Wallace) e nelle sue parole, che pronunciate ad hoc – durante un’intervista radiofonica piuttosto che nel salotto di un’amica, sgranocchiando pop-corn al burro – sembrano illuminare in maniera genuina la figura dell’autore che ha saputo descrivere, in tutti i suoi aspetti, il potere seduttivo dell’immagine.