Eight Days a Week – The Touring Years. The Beatles al cinema con Ron Howard.
Che cosa può raccontare Ron Howard che già non sappiamo sui The Beatles? Forse nulla.
La grande forza del documentario The Beatles: Eight Days a Week – The Touring Years diretto da Ron Howard, in sala fino al 21 settembre, sta nella particolare angolazione dalla quale il regista ha deciso di raccontare questa “vecchia” storia.
>> Per trattare una storia come quella dei The Beatles, che tutti conoscono e hanno già sentito milioni di volte, è indispensabile trovare una formula che non stanchi gli occhi e le orecchie con cose già viste e sentite.
Ron Howard quindi assembla fotografie e filmati (molti in Super 8) inediti e rari: ridà loro forma, suono e colore. Fa parlare nastri dimenticati, dà vita alle immagini, catapultandoti lì – nel 1963 – in uno studio di registrazione con quei quattro ragazzetti, la loro verve ed intelligenza e quel fantastico sense of humour.
The Beatles: Eight Days a Week ci presenta alcuni strati del mito, dal Cavern Club di Liverpool all’ultimo concerto al Candlestick Park di San Francisco, dal 1962 al 1966, per restituirci i The Beatles.
Il regista Ron Howard racconta d’avere utilizzato la mentalità narrativa di Apollo 13 –il film sulla sfortunata spedizione sulla Luna del 1970- per celebrare la grande avventura giovanile in cui quattro ragazzi sono stati lanciati a tutta velocità.Arricchito da nuove testimonianze di McCartney e Starr e da interviste d’archivio di Lennon e Harrison, Howard documenta sia l’atmosfera di gioiosa anarchia che si respirava in quei giorni, sia gli aspetti usuranti del lavoro di Beatle, un vero e proprio mestiere da eight days a week.
>> Oltre ad una frenetica avventura, il regista ci racconta anche la Beatlemania che ha catturato intere generazioni, in tutto il mondo, in modo incondizionato e al di là di ogni estrazione sociale, cultura, sesso ed età. Tra gli intervistati, Whoopi Goldberg spiega con semplicità il perché di questo fenomeno senza precedenti: “i Beatles ti davano l’idea di un mondo in cui chiunque era il benvenuto”.
Infatti ciò che colpisce più delle immagini di ragazzine svenute, urlanti e fuori controllo è l’innocenza di quattro giovani, geniali, eccezionali artisti che, in fondo, volevano solo suonare.
C’è Ringo Starr che ricorda come dovesse continuamente guardare i suoi compagni per stare a tempo, perché le urla delle fan coprivano impianti di amplificazione – non adeguati a un pubblico così grande come quello dello Shea Stadium (55 mila persone).
C’è George Harrison che racconta al telefono – felicissimo – come il suo gruppo fosse primo in classifica tra i dischi più venduti, c’è John Lennon che prende in giro i giornalisti facendosi chiamare Eric e c’è Paul McCartney che alla domanda “Cosa resterà dei Beatles nella cultura occidentale?” risponde “Noi non facciamo cultura, noi ci facciamo quattro risate”.
Ma in The Beatles:Eight days a week c’è anche il comprensibile desiderio di avere una vita oltre il palcoscenico e la presa di posizione sulla questione della segregazione razziale quando, giunti a Jacksonville l’11 settembre 1964, fecero aggiungere un’importante clausola al contratto: non avrebbero suonato se ci fosse stata separazione tra gli spettatori.
…E poi una delle sequenze più emozionanti: quella di Anfield Road in un sabato del 1964, con i tifosi del Liverpool abbracciati e tutto lo stadio che canta all’unisono She Loves You.
In realtà ogni immagine, ogni ripresa rimessa in vita trasmette un’emozione così viva da sentirti partecipe di quell’entusiasmo contagioso che spinse milioni di teenager a comprare tutti i loro dischi, a tagliarsi i capelli ed a vestirsi come loro.Qualunque cosa abbiano fatto i The Beatles, l’hanno fatto per primi e meglio di chiunque altro.
The Beatles: Eight Days a Week racconta l’integrità creativa che John, George, Paul e Ringo sono riusciti a mantenere continuando a crescere con un approccio sinceramente impegnato. Il film è al suo culmine quando, sul volo per LA, dopo quella che sarebbe stata l’ultima loro vera data a San Francisco, si sente George Harrison dire: “Well, that’s it, I’m not a Beatle any more”.
Da allora in poi decisero di dedicarsi alla registrazione in studio, suonando ancora un’ultima volta su un tetto a Londra -quello della Apple Records- poco prima dello scioglimento della band.
È servita in coda al film un bella sorpresa, rimanete perciò al vostro posto e godetevi l’intera esibizione della band allo Shea Stadium newyorkese!
Con il suono digitalizzato e la musica finalmente separata da quel girone dantesco di urla, ci si rende conto di quanto fossero intonati pur non avendo loro la minima idea, causa mancanza di monitor, di che accidenti stessero suonando gli altri tre. Ma anche questo fa parte della magia.