Novanta opere raccontano la poetica pittorica di un artista che raccontò l’Italia attraverso le correnti dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento. A cura di Nadia Marchioni, fino al 5 novembre 2017, al Palazzo Mediceo di Seravezza (Lu). http://www.terremedicee.it/
Seravezza (Lucca). Dalle sue tele traspaiono scene da libro di lettura dei tempi lontani, idilli agresti e popolari che sanno di estati afose, di bruma autunnale e di cenere nel focolare. Quando non toccano le corde di Pascoli e D’Annunzio. Plinio Nomellini (Livorno, 1866 – Firenze, 1943) è stato fra i pittori che, attraverso le varie fasi della sua carriera, meglio ha saputo fermare sulla tela l’Italia di un tempo, in particolare la Toscana selvaggia e contadina, intridendo di commossa poesia anche le prove più strettamente legate al naturalismo. La mostra Plinio Nomellini. Dal Divisionismo al Simbolismo verso la libertà del colore, riscopre un artista che, pur noto e apprezzato, è stranamente soggetto a periodi di oblio; una sua retrospettiva mancava in Italia dal 1989, ma quella di Seravezza non si pone come una classica monografica, bensì intende essere una retrospettiva di studio, dove l’opera di Nomellini è posta a confronto con quella di pittori a lui contemporanei, così da comprendere la sua formazione, gli ideali e le ispirazioni che ebbe, la vicinanza con gli intellettuali del suo tempo.
Nella natia Livorno, inevitabile fu l’influenza di Giovanni Fattori, caposcuola della Macchia, che fu poi suo maestro a Firenze nel 1885, e lo si osserva molto bene in opere quali Cavallo sul mare (1887), che lascia percepire il silenzio della spiaggia deserta, mentre il quadrupede in primo piano è mutuato appunto da Fattori, con i garretti ben tesi mentre attende pazientemente il padrone poco distante. Larghe pennellate orizzontali disegnano il cielo e il mare che si confondono all’orizzonte, mentre la spiaggia appena inerbita, con i suoi toni ocra screziati di verde, costituisce per contrasto cromatico la parte inferiore del dipinto.
A Firenze, Nomellini ebbe modo di frequentare anche Filadelfo Simi (1849-1923), un pittore che aveva trascorso alcuni anni a Parigi fra il 1874 e il 1879, e dove aveva studiato la corrente naturalista francese, che si stava sviluppando fra arte e letteratura. La sua esperienza fu utile anche a Nomellini, il quale assorbì quella vena bozzettistica adattandola alle corde fiorentine; Incontro al mercato (1887), ne è uno degli esempi più felici; un bozzetto dai tenui colori, che ricorda una pagina di Collodi o di Yorick. L’approccio scherzoso del giovanotto, la ragazza che abbozza un sorriso e spicca sulla scena con il suo abito rosa e il grembiule bianco; una sorta di teatro nel teatro, all’interno della grande scenografia del mercato cittadino.
Sulla medesima china, la Ciociara (1888), dove però il volto della ragazza è raffigurato con maggior perizia, avvicinandosi alla scuola verista, che ebbe in Filippo Palizzi, Adriano Cecioni, Giacomo Favretto, gli esponenti più autorevoli.
Ma Nomellini fu un pittore molto dinamico, mai pago dei traguardi raggiunti e attento alle novità che si potevano presentare sulla scena. Fra il 1890 e il 1891, la sua carriera conobbe una nuova fase creativa: prese avvio il periodo divisionista, ispirandosi al francese Camille Pissarro, il quale aveva introdotte alcune novità nell’Impressionismo, ovvero una fittissima tramatura di piccoli tocchi di pennello che, di fatto, sezionavano l’immagine in minute unità di colore. Un’adesione che suscitò in Toscana numerose polemiche contro Nomellini, al punto che con disprezzo non dissimulato, venne appellato “l’Impressionista”, quasi lo si volesse accusare di “tradimento” della Macchia. Polemiche che poco disturbarono l’artista, già trasferitosi in Liguria, dove con Kienerk e Torchi dette vita alla cosiddetta Scuola di Albaro; in questi anni lo stile di Nomellini acquista in suggestione ciò che perde in realismo, si fa idilliaco e “rarefatto”, la tavolozza lascia gli ocra scuri raccolti in Toscana e si abbandona alla luminosità marina del golfo di Genova, luminosità che, come un prisma, la frammentazione del pennello sembra aumentare.
Dalla passata frequentazione dei Macchiaioli (molti dei quali volontari per l’Unità del ’60, e socialisti), Nomellini assorbì la sensibilità per le problematiche sociali, così come sviluppò convinte simpatie anarchiche (che gli valsero un processo-farsa e ben cinque mesi di prigione nel 1894); gli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento videro in Italia numerosi scioperi, rivolte e proteste dovute all’aumento dei prezzi dei viveri di sussistenza, alla disoccupazione e alle rivendicazioni dei lavoratori per migliori condizioni salariali. Molti artisti, fra cui appunto Nomellini, videro nel naturalismo macchiaiolo l’opportunità per raccontare l’Italia che stava nascendo, un’Italia proletaria che cercava una sua coscienza civile e di classe, e dove i ceti più umili ancora dovevano lottare per i loro diritti. Sulla scorta di Giueppe Pellizza da Volpedo, (toccante, in mostra il suo Annegato, del 1894), Nomellini sviluppa un’arte sociale, a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo; una fase sospesa fra due stili, il naturalista e il divisionista. Al primo, appartiene I mattonai, opera del 1889, dove emerge l’onesta fatica degli operai, in un ambiente buio e reso soffocante dalla polvere. Un’opera di denuncia di una fatica malpagata. Un orizzonte più largo abbraccia La diana del lavoro (1893), che ritrae gli operai nella luce del primo mattino in attesa dell’apertura dei cancelli della fabbrica: si vede anche un bambino in primo piano, il volto spaurito, il sonno non ancora scacciato. Nessuno o quasi sembra parlare con il vicino, la mente oppressa dalle preoccupazioni e dall’imminente inizio della fatica quotidiana. Con quest’opera, Nomellini affronta la questione del ceto operaio che sempre più numeroso abita le città, oppresso dall’alienante ritmo del lavoro in fabbrica, preludio a un disagio che esploderà nella seconda metà del secolo.
Intanto, l’Europa del primo Novecento, pur in piena Belle Époque, scopre l’inquietudine verso una modernità che si rivela sempre più violenta, dominata dalla tecnologia (anche se il Positivismo è già entrato in crisi), e attraversata da nazionalismi che porteranno a due guerre mondiali nell’arco di pochi anni. Le angosce di quegli anni trovano sfogo nella corrente del Simbolismo, che seppur di ascendente nordico, in un certo senso ebbe le sue radici in Toscana; infatti Arnold Böcklin si ispiro al Cimitero degli Inglesi di Firenze per la sua Isola dei Morti. Il Simbolismo di Nomellini riecheggia sulla tela le poesie di Pascoli e D’Annunzio. In particolare, l’affinità con quest’ultimo la si nota nelle tele realizzate in Versilia o ad essa ispirate, dove l’ambiente naturale assume un piglio eroico, rilucente nei cromatismi struggenti dei tramonti o degli afosi pomeriggi, nei corpi nudi che richiamano esteti Superuomini, nelle onde schiumanti del mare in tempesta, nei crepuscoli le cui ombre sono il presagio di albe di rivoluzione. Il decadente clamore dannunziano è però intervallato da opere assai più misurate, vicine al Simbolismo “celestiale” di Giovanni Pascoli, cantore. Campagna toscana ne è un fulgido esempio, dove il cielo fosco autunnale si stende su un paesaggio silenzioso, dove i lavori agricoli sono quasi terminati e che si prepara al riposo invernale. Tuttavia, i pampani di vite in primo piano fanno pensare ai grappoli, così come il tepore di novembre fa pensare “all’albicocco in fiore” (cfr. Arano). Fra le prove più belle di questa fase, il ritratto dell’amico Lorenzo Viani, del quale fu tra i primi a intuire il talento e il carattere, e che conobbe a Viareggio, nel corso di uno dei numerosi soggiorni versiliesi di questi anni. I capelli scapigliati, la cravatta a fiocco tipica degli anarchici, la posa di profilo, lo sguardo perso davanti a sé, ci restituiscono un giovane sognatore destinato alla solitudine, come dimostra la folla che s’intravede alle sue spalle, destinata a rimanere sempre lontana. Un quadro toccante, emotivamente partecipato, che immerge il soggetto in una suggestiva aura psicologica.
Dal 1908 ai primi anni della Grande Guerra, Nomellini si stabilì permanentemente in Versilia, per quella che fu una stagione a metà fra il Simbolismo e l’approccio al tardo Impressionismo di Auguste Renoir. Se Le due anfore possiede quell’angosciosa aura scura che ricorda la pascoliana “tenevra azzurra”, su note più gaie si muove I covoni, scena della mietitura caratterizzata da una tavolozza solare, così come La sorgente, vicina per colori e atmosfera all’ultimo Renoir. Attraverso queste pitture, Nomellini ci restituisce una Versilia più agreste e meno balneare, una terra selvaggia e silenziosa, lontana dalle suggestioni mondane che cominciavano ad affermarsi. In Versilia, la tavolozza del pittore si arricchisce di una nuova solarità, lo sguardo si sofferma sulla bellezza di una natura aspra e arsa, caratterizzata da pinete e leccete.
La Grande Guerra si lascia alle spalle un’Europa in macerie, profondamente cambiata nell’assetto politico e sociale. Le nuove correnti artistiche non sono indagate da Nomellini, così come non si era avvicinato alle Avanguardie; per ragioni anagrafiche e di mentalità, sono troppo lontane per lui che si è formato con Fattori e Simi, ed è ancora legato a una società prevalentemente agricola, lontana dalle convulsioni dell’era industriale. Forse anche sperando in un ritorno all’ordine dopo il caos dei primi anni Venti, aderì al Fascismo (nonostante Gran Maestro della Loggia massonica intitolata all’anarchico Felice Orsini), e la sua ultima stagione pittorica lo vede ancora oscillare fra il Simbolismo e il tardo Impressionismo.
Scomparve nel 1943, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, dopo aver raggiunto considerevole fama grazie alle partecipazioni alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma, invitatovi dallo stesso regime fascista, del quale aveva realizzate numerose tele celebrative. Fu la sua stagione meno interessante, ma, oggettivamente, Nomellini non poteva dare di più; il suo mondo era ormai tramontato, e non ebbe la voglia di inserirsi nel nuovo.
Riscoperto negli anni Sessanta grazie a Ragghianti, di Nomellini resta una produzione pittorica caleidoscopica, capace di raccontare l’Italia del dopo Unità, ma soprattutto l’abilità nel raccontare sulla tela una Versilia eroica e primitiva insieme, lontana dalla mondanità di Moses Levy, permeata di poesia e di suggestioni filosofiche; Nomellini ne fece una terra mitica, specchio dello stato d’animo di un’epoca.
Per tutte le informazioni: http://www.terremedicee.it/