Solo, in cerca di noi. “Un Trait d’Union & Creation 2017” è lo spettacolo del grande coreografo franco-albanese Angelin Preljocaj.
Lo spettacolo è andato in scena il 4 ottobre a Tirana presso il Palazzo dei Congressi e ha aperto l’Albania Dance Meeting Festival (4 Ottobre – 5 Novembre). Preljocaj – allievo di Merce Cunningham – ha scelto la sua terra d’origine per l’anteprima mondiale della sua nuova creazione, “Still Life”, preceduta da una versione rivisitata della sua opera del 1989, “Un Trait d’Union”, che sarà anche presentata il 7 ottobre a Pristina.
Il Ballet Preljocaj prova a ragionare sulla solitudine, sulla moltitudine, su ciò in cui possiamo ancora sentirci legati nella vita di tutti i giorni. “Un Trait d’Union” (35 min) su musica di J. S. Bach è un duetto di ballerini maschi che si avvicendano sul palco al dorso e a ridosso di una poltrona e una sedia. Si avvinghiano, si ripetono, raramente all’unisono. Si cercano, seguendo la suggestione di Preljocaj di stare dentro il tentativo di trovare l’altro, non un altro. Interessanti i momenti fuggenti di contatto facciale tra i due danzatori che sembrano invece molto più spesso cercarsi a testa bassa, se non rotolandosi separatamente su quegli unici oggetti e spazi comodi presenti in scena. Emilio Calcagno e José Maria Alves calcano il legame di questa performance con la scelta di Tirana e uno di loro ringrazia il pubblico rispondendo agli applausi con le mani a forma di aquila, simbolo dell’Albania.
Ma i restanti 50 minuti catturano per la maestria del corpo di ballo, la grammatica delle luci e il sound industrial-elettronico di “Still Life”. Sei danzatori – 4 donne e 2 uomini – si divaricano in linee morbide e orizzontali per gran parte delle sequenze iniziali e finali della performance.
I movimenti ricordano ancora l’eredità classica del balletto, con braccia e gambe rigide mentre cercano di fendere e costruire letteralmente lo spazio circostante, ma ampia risonanza risultano avere i fraseggi per terra e il primo piano regalato a ginocchia che si agitano a piccole dosi quando il corpo è appunto supino. Così come le torsioni della testa accentuate da lunghe code di alcune ballerine in cui è visibile l’idea post-moderna del movimento che fa l’emozione e non viceversa, qui ed ora. Le individualità sono ben circoscritte su un palco che accoglie sei cubi dai quali i danzatori ricaveranno sei soprammobili, entrambi bianchi, quasi a rendere il loro singolo tributo alla comunità. Bianchi gli oggetti, bianca la luce a neon che scandisce i momenti corali dello spettacolo e che punta a focalizzare l’attenzione su chi sta agendo. Sfuma verso il nero, verso l’ombra, chi sta ai margini dei momenti singoli di ogni danzatore. Tutti vestiti di nero occupano lo spazio della scena formando coppie, piccoli cerchi concentrici, addensandosi come in una larga melma durante tutto il tempo affidato ai suoni tratti dalla vita quotidiana, quasi da modem o loading di una connessione che tarda ad arrivare. Il momento clou di ogni svolta espressiva viene rappresentata dal classicismo di uno dei due ballerini maschi che irrompe con la sua verticalità, centralità, e riporta l’ordine (la solitudine, il pensiero?) a suon di elettronica decisa e martellante. Ogni volta sembra un boato, la vista abitua il pubblico ad ascoltare diversamente. Qualcuno sobbalza.
Lo spettacolo si conclude con una danzatrice che a colpi di spada ingaggia un duello impari con gli altri personaggi sulla scena. Il lirismo, qui, è enfatico. Lei ha braccia così lunghe e perfette che la spada sembra essere l’ultimo tassello della sua invincibilità. Tutti trafitti per terra assistono alla sua resa banale dinanzi all’ultimo (uomo) vivo che le sottrae senza vincere alcuna resistenza le due spade di cui dispone. Una ballerina riacciuffa i calzini lanciati dietro le quinte all’avvio dello spettacolo.
Siamo sempre normati, dopo ogni tragedia.