Una scenografia tanto imponente quanto impressionante quella scelta da Gabriele Lavia per il suo ultimo lavoro, “Il padre” di August Strindberg in scena alla Corte di Genova fino al 18 marzo.
Una scenografia studiata accuratamente per descrivere uno spazio mentale diventato un mare di sangue. Il velluto rosso che inonda il palcoscenico sembra piovere dal graticcio, per dilagare verso il proscenio fino a lambire le prime file della platea. Un velluto rosso dentro il quale affonda letteralmente il mobilio borghese di fine ‘800. Sedie, divani e scrivania con alcune gambe mozzate mettono in risalto un equilibrio che via via diviene sempre più precario. Come precarie sono le certezze di un uomo divorato dal sospetto, insinuatogli dalla moglie, di non essere il padre biologico di sua figlia.
Lavia dopo “L’uomo dal fiore in bocca” si cimenta ancora una volta con un testo intriso di misoginia, le figure femminili infatti sembrano la causa di ogni male per il maschio che è succube della loro doppiezza satanica.
Ma la scrittura del drammaturgo svedese va oltre ed è volta a tratteggiare anche altri temi come lo scontro tra scienza e superstizione, tra il libero pensiero razionalista del protagonista e lo spiritismo bigotto che anima la moglie e la madre di lei. Un approccio che il regista accenna appena sovrastato dall’ossessione femminile. L’acuta indagine psicologica di Strindberg verso il nucleo famigliare borghese nello spettacolo di Lavia affonda nella decadenza di quel salotto immerso nei drappi dal colore della lussuria. Sono le donne della sua vita, dalla Tatina, alla moglie, alla madre di lei, fino alla bambina a decidere la vita di Adolf e poi la sua fine, e lui non si ribella più di tanto, conscio che non servirebbe a nulla.
Ed ecco che il Capitano scende progressivamente in un abisso di follia, che lo condurrà prima all’interdizione e infine a quella morte che ancora una volta sancisce il successo della donna in pieno regime di matriarcato. Lavia mette in luce fino al parossismo quello che è il crollo delle certezze virili, per chi non riesce ad imporre il suo ruolo di pater familias ed è anche un militare.
A dibattersi in questo mare angoscioso ed angosciante sono individui surreali, dalla Tatina dalla voce esageratamente da vecchietta che fa il paio con quella esageratamente infantile della bambina. Tutta finzione ostentata alla quale si associa anche il recitare di Lavia che gioca su dinamiche puerili fino a deflagrare nella regressione finale quando si fa vestire la camicia di forza senza neanche accorgersene. Laura, interpretata da Federica Di Martino, appare come un’odiosa concezione della donna, rigida nei movimenti come nello sguardo e nelle parole, una figura irreale di moglie, di madre e di figlia.
Lui è bravo, nulla da dire, anche se troppo spesso sembra compiacersi nel dilatare i tempi delle battute concedendo troppa retorica ad alcuni passaggi del testo. La sua ossessione diventa filosofia quando cita il mito di Eracle e Onfale, in cui nasconde una riflessione sul destino dell’uomo, spodestato dal proprio statuto ontologico.
Il tutto si chiude in uno scenario enfatico in cui i velluti rossi sembrano stringersi intorno ai protagonisti della vicenda mentre il persistere del vento conferisce ancor più tinte gotiche: muore il maschio insicuro e fragile stritolato dagli artigli delle” vedove nere”: il mondo vincente (per Lavia) è quello delle donne.
Il padre – August Strindberg
Dal 13 marzo fino al 18 marzo
Regia Gabriele Lavia
Teatro della Corte
Corte Lambruschini
16129 Genova
tel. +39 010 5342 200
www.teatrostabilegenova.it