Il 9 giugno a Palazzo Magnani, in occasione della mostra Don McCullin. La pace impossibile, si è tenuta la tavola rotonda dal titolo “Il tempo di testimoni è finito? Esperienze di fotoreportage a confronto” con ospiti internazionali.
Il dibattito, animato e denso di racconti, ha portato un contributo prezioso al tema e ha offerto alcuni elementi di riflessione utili a fornire una risposta alla domanda: “Dove va oggi il fotogiornalismo, è entrato irrimediabilmente in crisi?”.
I fotografi Adam Broomberg e Paola De Pietri, insieme a Alain Mingam, giornalista, fotografo, membro di Reporters sans Frontiéres, allo storico Walter Guadagnini e al critico Sandro Parmiggiani hanno portato le loro posizioni e opinioni.
Ecco quanto emerso in un racconto per punti aperto a molteplici visioni e forse soluzioni.
Sandro Parmiggiani (critico, curatore della mostra “Don McCullin. La pace impossibile” a Palazzo Magnani)
Che cos’è la fotografia? Non è solo lo strumento attraverso il quale mostrare cose od eventi, ma è uno strumento creativo che ha preso posto accanto agli altri linguaggi artistici. Oggi però vi sono anche altri strumenti attraverso i quali fissare alcuni momenti per noi significativi: videocamere e televisione e accanto ad essi uno strumento di diffusione globale iternet.
Grazie a questi nuovi strumenti siamo inondati di immagini, ma occorre domandarsi che cosa resta di questa alluvione di immagini. Serve per capire il mondo, per comprendere ciò che accade oppure aumenta la distanza dalla realtà?
Il fotogionalismo sta scomparendo perchè la tv informa più rapidamente e meglio e quindi dobbiamo considerarlo oramai strumento obsoleto?
Un tempo vi erano riviste – come ad esempio Life, Look, Epoca – nelle quali i servizi dei fotoreporter erano parte fondante. Oggi quelle riviste non esistono più, vi sono altri tipi di riviste nelle quali è raro incontrare esempi di fotogiornalismo come inteso in passato, mentre si nota una maggiore tendenza a patinare il repotarge di glamour. Ad esempio interessa dare un certo profumo, un’idea superficiale dei luoghi ritratti, alla luce di una scelta editoriale che si è andata affermando e che non ritenere utile mostrare certe cose.
Che ruolo futuro si può assegnare al fotogionalismo? Ora, forse, vi sono sbocchi diversi idonei a mostrare gli esiti dei reportage: i libri e le mostre che danno inoltre maggiore possibilità di scavare dentro alle informazioni e ai contenuti che il fotografo intende trasmettere.
Alain Mingam (giornalista, fotografo, membro di Reporters sans Frontiéres)
Il fotogiornalismo è morto. Viva il fotogiornalismo!
Internet porta in giro un sacco di immagini su un mercato saturo; l’offerta supera la domanda e questo ha determinato una diminuzione dei prezzi e ha messo in atto un attentato alla credibilità di un sistema. Recentemente in Francia vi sono stati tentativi di suicidio da parte di tre fotografi estremamente noti, i cui telefoni non avevano più suonato e non avevano più ricevuto committenze. E’ una realtà cruda, ma occorre guardarla in faccia.
Si è osservata una modifica nel modo di intendere il reportage, che va al di là delle problematiche legate a internet e che attiene maggiormente alla natura del supporto delle immagini: la carta non è oramai il supporto più diffuso, si usa ad esempio il web documentario.
Nel 1982 a Beirut durante la guerra, le tv hanno iniziato a fare una diretta; era la prima volta che ciò accadeva e molti fotografi presenti in quei luoghi si erano prefigurati quello che sarebbe successo oggi. La tv è una piovra che ha fagocitato tutta la sostanza del fotogiornalismo.
La tv ha obbligato il fotogiornalismo ad evolversi e a piegarsi al volere dei giornali che chiedono immagini glamour. Ma i giornali devono porsi delle domande e in coscienza uscire da questa corsa al mercato facile, perchè la qualità delle immagini che vengono prodotte oggi non può trovare lo spazio vitale per sopravvivere solo nei musei e nelle gallerie.
Non si sono mai viste tante persone come oggi visitare mostre di fotoreportage; esiste dunque una domanda, ma per dare ad essa risposte occorre attivare un sistema economico per permettere ai fotografi di essere creativi e di vivere della qualità delle loro immagini.
Esistono nuove forme di scrittura fotogiornalistica: video con montaggio di immagini, realizzate per evitare che esse muoiano nei depositi e negli archivi.
L’associazione internazionale Reporters sans Frontiéres lotta per evitare ogni forma di censura con la convinzione che le immagini di guerra devono essere utilizzate con coraggio e anche con prudenza per evitare ogni tipo di manipolazione
Paola De Pietri (fotografa)
L’esempio del progetto “To face” 2008-2011, condotto dalla fotografa nei luoghi di guerra sul confine Italo-Austriaco.
Il confine italo austriaco si è modificato nel corso del tempo e reca ancora i segni delle battaglie (trincee, cunicoli, buchi arrecati dallo scoppio delle bombe) che lo hanno visto protagonista. Su questi segni si sono innestate le modifiche che solo l’avanzamento della natura ha apportato, ma i terreni raccontano ancora le vicende che ne hanno sconvolto la morfologia: occorre vedere la realtà attraverso le tappe del suo percorso storico.
Adam Broomberg (artista e fotografo)
La crisi del fotogiornalismo può essere divisa in due parti:
1) Una crisi di tipo economico che si è osservata negli ultimi 5 anni: non esiste più il fotogiornalista che consegna le proprie immagini ai giornali
2) Una crisi di tipo morale ed etico, molto più vecchia
Non ci sono mai state così tante immagini come oggi, ma di fronte a questa enorme quantità di immagini abbiamo una minore comprensione dei problemi e dei drammi del mondo.
Questa conferenza è perfetta nel contesto della mostra dedicata a Don McCullin, in quanto McCullin ha realizzato in Vietnam il lavoro più efficace ed emozionante che sia mai stato fatto nel mondo del fotogiornalismo: lui, insieme ad altri fotogiornalisti, si dice che abbiamo cambiato il volto della guerra in Vietnem, ne hanno influenzato il corso.
Il lavoro condotto da Broomberg insieme a Chanarin prende spunto da ciò che avveniva negli anni ’30. Bertolt Brecht ha dato l’impianto in quegli anni al fotoreportage di guerra e sosteneva che le immagini di guerra erano come dei geroglifici che necessitavano di un traduzione: per un suo progetto del 1955 ogni giorno tagliava un’immagine di una copertina del giornale e scriveva una poesia di alcune righe che decodificava quell’immagine.
Broomberg e Chanarin hanno realizzato un lavoro analogo in “War Primer 2”: dall’11 settembre sino alla morte di Bin Laden hanno preso le immagini più significative di quel periodo incollandole sopra a quelle realizzate da Brecht.
Nei luoghi di guerra i fotogiornalisti subiscono l’embedding.
Durante le guerre in Iran e Iraq i fotogiornalisti passavano molto tempo con i soldati durante i trasferimenti e allacciavano con loro un rapporto di amicizia, rapporto che però finiva per influenzare la visione del conflitto da parte dei fotogiornalisti.
Nel modulo da compilare che viene consegnato al fotogiornalista prima di partire per un conflitto viene chiesto di dichiarare che: non fotograferà un soldato ferito o morto, non fotograferà gli esiti del fuoco nemico ecc. di fatto non puoi fotografare niente degli esiti della guerra. Così Broomberg e Chanarin hanno dato vita la progetto “The Day That Nobody Died” nel 2008 partendo per l’Afghanistan. Non hanno portato con loro la macchina fotografica, ma 12 metri di carta fotografica con la quale hanno rivestito i vetri dei blindati con cui si recavano sul fronte di guerra. Le auto diventavano così una camera oscura viaggiante e quando il mezzo si fermava si aprivano le portiere, la carta veniva srotolavano e la si lasciava impressionare per 20 secondi. Quello che viene impresso è la banalità, il nulla, l’orrore. Il progetto ha fatto arrabbiare molti in quanto ha voluto lanciare una provocazione: nelle condizioni in cui vengono messi i fotogiornalisti (non possono fotografare nulla, sono soggetti a censura) che cosa ci si aspetta che loro riportino dalla guerra? Questo progetto restituisce un documento reale di ciò che è accaduto in quei luoghi.
Walter Guadagnini (critico della fotografia, docente Accademia di Belle arti di Bologna)
L’aspetto inquietante dell’ embedment è che si sta parlando di fotografi che sono costretti a comportarsi come i fotografi dell’800. La libertà di informazione è la stessa di 200 anni fa. Le immagini dell’Afghanistan le abbiamo viste, dalla tv, da internet, e forse è il caso di affermare che è finito il tempo dei testimoni professionali; sono cambiati i protagonisti del fotogiornalismo: sono immagini non professionali dei grandi eventi che oggi abbiamo negli occhi.
Il ruolo dei fotogiornalisti un tempo era diverso: gli illustratori erano stati scalzati dai fotogionalisti che erano delle star. Oggi i fotogiornalisti sono stati a loro volta scalzati dai nuovi media. Occorre domandarsi che cosa si può chiedere oggi alla fotografia.
La fotografia professionale può sicuramente aiutare a porre della domande, si può rinunciare alla quantità di immagini professionali a favore della qualità.
Adam Broomberg conclude la tavola rotonda con questo pensiero che consegniamo come efficace riflessione conclusiva.
Come può essere rappresentata oggi la guerra?
Oggi viviamo in un tempo molto più eccitante se si è interessati a vedere i veri effetti delle bombe sui corpi umani: è tutto accessibile su internet.
Ma sono solo gli artisti, i veri fotoreporter, che riescono a colpire davvero e a restituire immagini icone della guerra, che superano la mera documentazione e emozionano per la loro intensità.
La tavola rotonda sarà oggetto di una pubblicazione che la Fondazione Palazzo Magnani editerà nel 2013.
L’EVENTO
IL TEMPO DEI TESTIMONI E’ FINITO?
Esperienze di fotoreportage a confronto
sabato 9 giugno 9.45/13.30
Palazzo Magnani, Corso Garibaldi, 29 – Reggio Emilia