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Guglielmo Achille Cavellini e Antonio Spada, protagonisti assoluti del collezionismo mondiale

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Un nuovo appuntamento con “Amarcord” la rubrica di Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie di Giancarlo Politi

Un giorno, a Roma, mentre ero al lavoro a La Fiera Letteraria e stavo discutendo con il caporedattore, Pietro Cimatti, mi pare sui lirici greci di Salvatore Quasimodo, su cui lui era molto critico ed io entusiasta, mi arriva una telefonata da Brescia. “Sono Guglielmo Achille Cavellini, il famoso collezionista,” mi dice l’interlocutore. “Ah, sì,” risposi io sorpreso, “mi dica.” “Vorrei invitarla qui a Brescia per conoscerla e mostrarle la mia collezione.” “Bene,” risposi io, “ma non ho sufficienti economie per affrontare il viaggio e soggiorno”

(All’epoca al La Fiera Letteraria percepivo cinquantamila lire in nero al mese: venticinque euro di oggi, ma il valore di acquisto di cinquantamila era molto, molto superiore ai venticinque euro di oggi: io con quella cifra riuscivo a mantenermi. Diecimila al mese per una stanza condivisa, in via dei Serpenti, in pieno centro, e il resto per il tram e poi panini e pizze e spesso ero invitato a cena da amici.)

“Non si preoccupi,” rispose Cavellini con voce squillante e invitante dall’altro capo del filo. “Le offro io il viaggio in prima classe e un buon albergo”. “Bene, quando posso arrivare?” “Quando vuole lei, anche domani. Io sono qui. E il mio ufficio è accanto alla stazione. Quando arriva vedrà sulla sinistra un grande complesso, Magazzini 33, lei entra e chieda di me”.

All’epoca i viaggi in prima classe rappresentavano una risorsa per me. Anche La Biennale di Venezia (bei tempi!) mi offriva il viaggio in prima classe e poi una stanza all’Hotel Bauer per tre notti. Credo di non aver mai goduto la Biennale come a quei tempi, anche perché avvenivano cose strabilianti, come l’arrivo della Pop Art nel 1964 (e cene con Leo Castelli insieme a Jasper Johns, Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Roy Lichtenstein, insieme alle eminenze grigie della Biennale e della città, tra cui Luigi Marchiori, Umbro Apollonio, Emilio Vedova, Bepi Santomaso e Luigi Scarpa).  O la rivolta degli artisti nel 1968, che non capii bene a cosa si rivoltavano. Di quell’edizione rammento solo le accesissime discussioni tra Arturo Schwarz e Pino Pascali che quasi vennero alle mani; e poi tutti i quadri degli artisti italiani rivoltati contro la parete, con grande rammarico della maggior parte di loro che avevano aspettato una vita per partecipare alla Biennale.

Nessuno, però, poteva ignorare il diktat politico che imponeva loro il ritiro delle opere dalla Biennale. Fu poi scelta l’opzione soft di girare i quadri verso la parete, esponendo al pubblico solo il retro con la firma e la data. Ma il giorno dopo, quasi di soppiatto, tutti gli artisti rimisero i quadri nel verso giusto, ma negando di averlo fatto.

Queste grandi manifestazioni – Biennale di Venezia, Biennale di San Marino, Premio Lissone, Premio Marzotto e qualche altro – usavano invitare alcuni critici (pochi in realtà, solo i titolari di testate importanti) con un biglietto di prima classe. Capirete voi che per me era una manna: io viaggiavo benissimo in terza classe e rimborsato per la prima. Talvolta la differenza rappresentava per me quasi un secondo stipendio. Cavellini, che mi chiamava da Brescia invitandomi in prima classe, mi fece venire alla mente la Biennale di Venezia e le sue opulenze, ormai ricordo sbiadito.

Cavellini e la Mail Art

Arrivai a Brescia in mattinata (avevo viaggiato lietamente sui sedili di legno tutta la notte) e appena uscito dalla stazione vidi questo imponente edificio dei Magazzini 33, dei fratelli Cavellini.
Quando la segretaria mi annunciò, Achille si precipitò da me e mi portò nel suo ufficio, pieno di scatole, di grandi buste con molti francobolli, ritagli di giornali, collages, cartoline con timbri e scritte strane: non era un ufficio quello ma il laboratorio della Mail Art, di cui GAC (Guglielmo Achille Cavellini) stava diventando un protagonista.
Avvantaggiato dal fatto che fosse benestante (o ricco?) rispetto agli altri esponenti della Mail Art, che a fatica riuscivano a comperare un francobollo, Cavellini invece riusciva a spedire migliaia di opere di Mail Art ogni mese, facendosi così conoscere ovunque. Allora capii che non mi aveva invitato per ammirare la sua collezione (per l’epoca notevolissima, forse la prime in Italia sull’arte contemporanea), ma per mostrarmi e parlarmi del suo lavoro di performer e mail artista.

La villetta dove abitava, custodita con grande cura dalla moglie, Lisetta, si ergeva su tre piani, ognuno dei quali dedicato a più artisti o a una tendenza. Per me vedere la Pop Art inglese o la grande astrazione europea (Fautrier, Hartung, Soulages) o alcuni grandi italiani (Fontana, Vedova, Burri, Santomaso, Afro) fu un colpo allo stomaco. Molto di più delle buste con i grandi francobolli (tra cui il suo autoritratto in forma di francobollo) della mail art di GAC.

Ma Cavellini era uomo affabilissimo, colto e informato – ma soprattutto curioso. Volle sapere della situazione romana, dandomi appuntamento per uno studio visit prossimo. Il che avvenne quasi subito: mi scrisse una lettera chiedendomi di fissare appuntamenti con Kounellis, Pascali e Schifano. Kounellis ci ricevette a casa sua con la moglie dell’epoca, Efi, collaboratrice e vestale dell’artista in quegli anni, a cui dedicava la vita malgrado fosse stata compagna di studi all’accademia di Roma. (Si diceva anche che Efi avesse rinunciato alla sua carriera di artista per assistere Kounellis.) Cavellini voleva comperare alcune tele di Jannis il quale, in un primo tempo, si negava, dicendo di non aveva nulla; ma quando poi vide un malloppo di fogli da centomila nelle mani di Cavellini, da sotto il letto Efi tirò fuori tre grandi tele di oltre due metri, arrotolate. Le famose tele con frecce e lettere dell’alfabeto. Efi chiedeva un milione per ogni tela. A me sembrò una cifra da capogiro, per me che guadagnavo cinquantamila al mese. Dopo lunghe discussioni e performance di Cavellini che saltava tra una tela e l’altra, si accordarono per ottocentomila lire cadauna. Cavellini arrotolò le tele, se le mise sotto braccio e uscimmo. Capii allora che era abituato a queste pantomime con gli artisti senza perdere tempo in spedizioni o altro. Le portò in albergo e le avrebbe condotte con sé nel vagone letto.

Con Pino Pascali invece non andò bene: Pino aveva solo un cubo di terra, di un metro per un metro, difficile per Cavellini da portare in vagone letto. Si accordarono per altro incontro, che poi sfumò per la morte di Pino. Lo studio di Mario Schifano era vuoto: c’era lui, con i soliti jeans sporchi di colore e sdruciti che tanto eccitavano le principesse di passaggio, ma delusero me e Cavellini – che non comperò nulla. Arrivederci Roma.

Protagonista mondiale

La Mail Art (o Arte Postale) a quei tempi imperversava: ogni artista o presunto tale si divertiva ad inviare ad amici e colleghi cartoline o buste diversamente elaborate, dipinte, scritte. E sopra francobolli a gogò. Il movimento era stato fondato da Ray Johnson e la sua New York Correspondance School; anche se il marchigiano Ivo Pannaggi, già nel 1920, aveva proposto molti collage postali di carattere futurista. Bellissimi e scomparsi. Lui me li mostrò nel suo studio a Macerata, dove era appena tornato dalla Finlandia.

GAC divenne subito un protagonista mondiale, perché ogni giorno portava in posta tonnellate di buste, pacchetti, cartoline. E nessuno aveva la sua potenza di fuoco.

Fu lui che a Brescia mi presentò il collezionista imprenditore Antonio Spada che cambiò la mia vita. In quei mesi Brescia divenne una città calda per l’arte contemporanea: con l’aiuto di un bravissimo e sensibile artista locale, Valentino Zini, Pio Monti (venuto al mio seguito) aprì una galleria a Brescia, Acme-Artestudio, dove ricordo presentò una bellissima mostra di Fabio Mauri, ma anche tutta la genealogia degli artisti cinetici – in primis Getulio Alviani, suo mentore e amico.

Con Antonio Spada, a cui su richiesta davo qualche suggerimento, diventammo amici e mi propose di trasferire la redazione di Flash Art da Roma (ormai invivibile per me) a Brescia, in un suo spazio, dove abitavo e lavoravo. Giorni bellissimi, anche perché spesso ero invitato a pranzo da Spada e mentre lui mangiava un filetto scondito, io facevo il pieno per i giorni successivi. Passava spesso a trovarmi anche Massimo Minini, che allora era rappresentante di commercio e girava l’Europa cercando di piazzare alcuni prodotti delle aziende bresciane.

Io, Cavellini e Mario Verdone

Un’estate Achille Cavellini invitò me e mia moglie Helena in una sorta viaggio di nozze, ospitandoci per alcuni giorni a Taormina. Una vacanza bellissima ed esclusiva in un hotel sul mare, dove abbiamo conosciuto, sempre tramite GAC, Mario Verdone, il papà di Carlo. Mario Verdone era un uomo coltissimo, raffinato e curioso, grande studioso del cinema, in particolare quello futurista. Mario poi collaborò, con articoli sul cinema a Flash Art. A tavola, durante le cene, Mario ci parlava spesso dei suoi tre figli, Carlo, Luca e Silvia, tutti appassionati di cinema e secondo lui, futuri cineasti. Lui era docente (o direttore?) al Centro Sperimentale di Cinematografia e ci raccontava che era molto amico di Alberto Sordi e di numerosi registi e attori. Il nostro rapporto durò forse un anno o due, poi come sempre accade, ognuno per la sua strada. Ma di Mario Verdone conservo un bellissimo ricordo, di persona affabile, colta e disponibile. Vista la circostanza, forse stava scrivendo un testo su Cavellini.

Nel 1975, andai con Cavellini (sempre suo ospite) a Varsavia, in occasione di una sua mostra e performance alla galleria Współczesna (sono d’accordo, è impronunciabile), allora punto di riferimento della Body Art in Polonia e in Europa. Ci accompagnava il fotografo Ken Damy per documentare l’evento. Ricordo che il successo fu caloroso: GAC trattato come una star, con richiesta di autografi e quasi portato in trionfo.

Io non ho mai capito se GAC pensava di essere un genio o faceva finta. Ma ne recitava molto bene il ruolo. All’epoca un famoso giornalista tedesco, Willi Bongard, pubblicava ogni anno sul famoso mensile Das Kapital una classifica dei migliori cento artisti del mondo. Poi scoprii che molte gallerie pagando trentamila marchi, inserivano i loro artisti. Me lo confermò il gallerista di Colonia di Alviani, Winfried Reckermann, che era riuscito a inserire Getulio al 99mo posto. Questa graduatoria pare avesse il suo peso nel mercato tedesco. Al primo posto sempre Warhol e Beuys, un anno l’uno, il successivo l’altro; poi Christo, Mack, Fontana, Manzoni ecc. Quando mostrai questa graduatoria a Cavellini, lui ne restò affascinato e con un colpo di genio, fece ristampare diecimila copie della pagina inserendo il suo nome al quarto posto, invece di Piero Manzoni. Lui spedì a tutto il mondo questa brochure, al punto che Gillo Dorfles, prendendola per autentica (come quasi tutti del resto), la pubblicò integralmente nel suo libro Ultime tendenze nell’arte di oggi. Chi possedesse quell’edizione potrà confermare. Io ce l’ho ancora da qualche parte. E la pagina restò per alcuni anni; poi qualcuno avvertì Dorfles che in una edizione successiva la tolse.

Caro Achille, vorrei portarti una rosa rossa

Cavellini scriveva e diceva a tutti di essere un genio. Io credo che ad un certo momento ne fosse convinto. Comunque per la sua cosiddetta “storicizzazione” fece cose incredibili, dai francobolli alle false mostre nei musei, alle false biografie nelle Enciclopedie, persino nella Treccani, credo, riuscendo ad avere una credibilità e visibilità inconsueta. E profondendo tantissime energie e anche un po’ di denaro, divenne molto popolare in molti paesi, specialmente in Giappone, dove si recò, invitato, almeno un paio di volte, per mostre in gallerie e musei.

Non basta un Amarcord per descrivere una vita così intensa e talmente e felicemente dedicata all’arte, all’arte sua ma anche a quella degli altri, che occorrerebbe veramente un’enciclopedia. I suoi racconti sugli artisti francesi, specialmente Fautrier, di cui fu frequentatore e amico mi appassionavano. Mi diceva che acquistava da Fautrier pacchi di opere su carta a diecimila lire l’una (oggi cinque euro, ma diciamo che il valore corrispondente sarebbe cento euro). Tornando poi a Milano con il solito vagone letto e con rotoli di opere di Fautrier, Hartung, Soulages, Vieira da Silva. Non ho mai conosciuto persona così appassionata d’arte nella mia vita.

Poi, improvvisamente, il tracollo. La sua azienda, i famosi Magazzini 33, fallirono, lui dovette vendere la sua bellissima villetta e ritirarsi in un appartamento in condominio. Comunque era sempre allegro e di buonumore, anche quando perse la sua Lisetta; mi telefonò e mi disse: “Lisetta non ce l’ha fatta. Ma la vita continua.”

Invece non continuò per molto. Nel 1990, a settantasei anni ci lasciò. Credo anche per le frustrazioni e delusioni, lui sempre così vitale e allegro e propositivo, con le sue BMW sempre nuove. E io mi rimprovero ancora oggi di non essergli stato vicino negli ultimi tempi. Preso e divorato dal lavoro e dal successo nel lavoro di quegli anni, trascurai amici come GAC a cui devo molto, forse anche una svolta nella mia vita.

Ogni tanto mi chiedo: e se non avessi incontrato Achille Cavellini, Antonio Spada, Achille Mauri, Antonio Dias, come sarebbe stata la mia vita? È una domanda a cui non posso dare risposta, ma in cuor mio ogni tanto penso a loro con commozione e riconoscenza. A Cavellini vorrei portare presto una rosa rossa (a lui piacerebbe) sulla sua tomba a Brescia.

 

Per scrivere a Giancarlo Politi:
giancarlo@flashartonline.com

 

* nella foto: Guglielmo Achille Cavellini con Andy Warhol (1974)

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