JOHN GABRIEL BORKMAN resta in scena al Teatro della Corte di Genova fino a domenica 18 novembre.
Il sipario si alza su una scena in prospettiva dal soffitto basso che indica l’oppressione che vi è nel locale dove appare per prima seduta su un letto di ferro Gunhild, una donna ferita nell’orgoglio. Suo marito John Gabriel Borkman, condannato dall’ambizione e dalla bramosia di denaro a trascorrere otto anni in carcere, infatti l’ha gettata nella vergogna oltre che nella miseria. Ora, tornato libero, Borkman è però incapace di soffocare l’inquietudine e l’ansia che lo animano, e per questo cammina compulsivamente nella propria stanza al piano di sopra, in attesa che si ripresenti una “grande occasione”.
E così il primo atto trascorre senza la presenza del protagonista di cui si odono solo i passi nervosi e pesanti sopra la testa della moglie Gunhild, che nervosa ed esausta fuma, beve ed ascolta al giradischi la musica di Tom Waits. Borkman, alias Gabirele Lavia, arriva dopo e scende dal cielo (come si merita un grande divo come lui), accompagnato da un soffitto removibile di grande effetto.
Borkamn è una sorta di incarnazione del Superuomo nieztschiano, la cui stanchezza fisica sembra non aver intaccato la forza di volontà che appare anzi rinsaldata dall’ansia di riscatto. I personaggi si muovono inevitabilmente in discesa sopraffatti dallo scenario che li costringe a scendere, quasi a scivolare, come metaforicamente è giusto sia per chi ha commesso dei delitti. Delitto infatti è quello di Borkman nell’aver tradito la fiducia dei suoi clienti della banca, ma ancora di più quello di aver tradito l’amore della donna amata vendendola a chi poi lo ha dato in pasto alla giustizia. Ma delitto è anche quello di Gunhild nel non essere stata accanto al marito nei momenti di difficoltà, come nel voler tenere legato a sè un figlio che invece ha sete di libertà. L’unica vittima è Ella, ripudiata da tutti e malata anche lei spesso patetica nelle proprie richieste d’amore che sfociano nel ricatto.
Lavia interpreta Borkman con la maestria del grande attore che non ha neanche bisogno di seguire il testo battuta per battuta per raccontare l’essenza del suo personaggio. Il suo Borkman è ancora un uomo vigoroso che non si grogiola nel dolore di un fallimento che non vede affatto, se non alla fine, e per questo si muove agilmente camminando anche sopra un tavolo (sempre pericolosamente in discesa) confidando i propri progetti di riscatto allo scrivano Foldal, l’unica persona con cui riesce ad avere una conversazione amichevole.
Borkman non riesce ad amare nessuno se non i soldi, del resto il suo cognome vuol dire “uomo corteccia”, e le sue due donne, entrambe creditrici nei suoi confronti, in un’implicita nemesi identificano nel ragazzo l’unico tesoro in grado di azzerare i debiti del padre. Ma il ragazzo non ne vuole sapere e scappa via da questa situazione familiare malata con una donna più grande di lui di sette anni e una ragazza, una giovane pianista, figlia di Foldal.
Il tutto termina in inevitabile tragedia che vuole la morte di Borkman al freddo tra la neve che esce proprompente dalle quattro porte dello scenario con la stessa forza del sangue che si rovescia dalle porte dell’ascensore del grand hotel del film Shining di Kubrick. La neve come il sangue a contraddistinguere gli orrori commessi all’insegna di un dio che non perdona, il dio denaro.
“Io sento la voce dei soldi impigionati dentro la montagna” dice Borkman in punto di morte”Io vi amo ricchezze che state nascoste nell’ombra della notte” e con queste parole è esplicito che da parte sua non vi è alcuno pentimento nè alcuna catarsi per quanto fatto.
Affaticate, Gunhild ed Ella, gemelle rivali sia per l’amore di un uomo che di un figlio, forse si ritrovano adesso che Borkman se ne è andato per sempre”ucciso dal freddo dell’anima”.
Oltre a Lavia ottima tutta la compagnia a cominciare da Laura Marinoni, nel ruolo della moglie Gunhild, Federica di Martino nel ruolo di Ella, e poi Roberto Alinghieri nel personaggio di Foldal, ed i giovani Giorgia Salari, Francesco Sferrazza Papa e Roxana Doran. La regia di Marco Sciaccaluga è sapiente e feroce nel rispecchiare la storia del fallimento di un’idea del mondo. A contribuireall’egregio lavoro del Teatro Nazionale di Genova sono senz’altro le straordinarie scene di Guido Fiorato, che ben rispecchiano l’atmosfera in cui si svolge tutta la drammaturgia di Ibsen.