Un’intervista che diventa una sorta di visita guidata dall’artista Gianfranco D’Alonzo a “Please_stanza di preghiera”, il suo intervento partecipativo al Macro Asilo di Roma
“Potrei rispondere perché no ma la risposta giusta è nella domanda stessa. Elementi di religiosità e di prassi spirituale, anche se non dichiarate, sono di fatto alla base di tanta ricerca dell’arte contemporanea, che quando non è astrazione ricorre a forme mitologiche. Non è un caso che mi capita spesso di citare un pensiero di Alberto Abruzzese: ‘Non c’è più tempo per stare a parlare di tutto, di qualsiasi cosa, bisogna parlare di quello che davvero conta. Cioè della religione. Che da divina si è fatta società’. Negli spazi di preghiera che allestisco, a partire dall’opera web del 2011 Land of prayer, agiscono figure non riconducibili a un immaginario religioso”. È questa la risposta dell’artista Gianfranco D’Alonzo a chi gli chiede di spiegare il titolo del suo intervento al Macro Asilo di Roma: Please_stanza di preghiera, visibile – e praticabile – fino al 30 dicembre al Museo d’Arte Contemporanea di Roma, profondamente inserito nel nuovo mood “open” impresso alla struttura dal direttore Giorgio De Finis. Ne approfittiamo per farci guidare direttamente dall’artista…
Spiegaci la dinamica…
Paradosso e mimesi sono pratiche di riferimento che mi aiutano nel costante tentativo di aprire varchi ai recinti che costruisco. Il disegno sta lì per riaffermare la chiusura ermetica, i materiali per determinare i modi di relazione. Potremmo parlare di impossibilità della preghiera, condizione coatta per riflettere su come abitiamo il mondo e come ce lo rappresentiamo. Perciò Please diventa, o si fa opera quando rompe i propri statuti formali di recinto, di chiusura e partecipa – sottolineo che è lei a partecipare – a considerazioni e a pratiche della quotidianità. Come in altre occasioni, il primo impatto lo si ha con il grande tappeto/zerbino – in questo caso bianco e delimitato da una cornice disegnata , una sorta di ricamo nero – che occupa gran parte del pavimento dell’ambiente. Che sia percepito come un tappeto è il primo momento di ambiguità. Chi ne fa esperienza è certo del riferimento a una specifica confessione. Ma il materiale che usiamo davanti agli ingressi delle nostre case per pulirci le scarpe ci dice che ciò non sarà possibile e l’avventore dovrà trovare un altro senso alla sua presenza in quel luogo, che non sarà più quello della visita a una mostra. Anche i quadrati d’oro, che a un primo approccio potrebbero rimandare solo a se stessi, se inquadrano il volto di una persona sono capaci di modificare la propria natura in forme divinizzanti.
Come hai scelto i contributi che si realizzano all’interno del dispositivo?
In alcuni casi ripropongo opere che ho realizzato all’interno della Stanza di preghiera del MAAM, attiva dal 2015. Altre arrivano da amici, artisti e non, come nei casi delle performer Annalisa Deligia e Arianna Ferreri, e dell’architetto Francesco Cellini che ho conosciuto tramite Massimo Mazzone. Anche la partecipazione di Edoardo Albinati è frutto della collaborazione della Casa delle letterature di Roma e il Macro Asilo. Da solo non sarei stato in grado di costruire questo “palinsesto”e nemmeno mi sarebbe piaciuto farlo. Da anni ormai lavoro dando molta importanza ai contributi riflessivi di persone che mi seguono – come Emma Ercoli, Luisa Valeriani e Franco Speroni – e considero queste opere frutto di un lavoro collettivo e non esclusivamente “mio”. Un discorso a parte va fatto per il brevissimo video Tenebrae dove Paul Celan legge la sua poesia su una brevissima carrellata del film di Alain Resnais Nuit et brouillard. Lo ha realizzato da Paul Senhal, una conoscenza nata e vissuta esclusivamente su Facebook, dalla quale è scaturita questa collaborazione. Il suo è un nick name, ovviamente, e ciò rende ancora più intrigante e sorprendente la dimensione dell’opera nel suo complesso perché ne svela, a proposito di paradossi, la chiave di lettura.
Questo che dici richiama il tema dell’abitare in tutte le sue forme
Please non vuole certo essere metafora di condizioni umane e disumane, ma l’”atelier” nel quale è stato lavorato è mobile, dal tempo prolungato, con uno spazio di luoghi distanziati da muri; colmo di corpi, di oggetti, di immagini; colmo di desideri. Quel Superluogo da cui scaturisce (Please deriva direttamente dall’esperienza di anni di lavoro all’interno del MAAM e di Metropoliz, occupazione abitativa alla periferia di Roma che Marc Augé in occasione di una sua recente visita definì Superluogo, NDR) in cui arte, politica, relazioni estetiche e umane si concentrano intorno alla questione casa, attiva qui un dispositivo che rinnova l’attenzione sul nostro agire che possa liberare la preghiera dagli orpelli formali per incarnarla nel quotidiano, nel domestico, nel rituale politico.
Perciò come definiresti quest’opera?
Tutto lo sforzo è diretto verso la non definizione. Provengo da studi e pratiche della grafica d’arte nelle quali è difficile, se non impossibile dal mio punto di vista, determinare una figura dell’opera se non nel suo iter, il prima e il dopo sono stadi sempre reversibili e costantemente presenti. In Please la matrice non promette mai un’immagine il cui desiderio non è mai appagato. Ma questo richiede un impegno complesso di elaborazione iconoclasta dove l’oggetto d’interesse non sta nel demolire, ricoprire, annullare l’immagine ma rideterminarne la sua collocazione, cioè nascosta. Questa azione comprende anche quella di mimesis. Come accennavo prima, ripercorrere nella pratica artistica quelle del nascondimento della storia disvela dimensioni della condizione rituale della società che divinizza se stessa, pertanto le sue categorie sono pienamente sovrapponibili ai modi della spiritualità. Inoltre, ristabilire un segreto e proteggerlo mi mette al pari di chi sull’omertà e sull’occultamento della storia (dell’arte) fonda il proprio potere. Come vedi, paradossalmente, pretendo di descrivere la realtà ripercorrendone i sentieri e non rappresentandola: nessuna denuncia e nessuna provocazione, che è aderente a una società laica, ma per come stanno le cose oggi (e questo è un passaggio delicato perché non amo le paludi della cronaca) forse dissacrazione è il termine più azzeccato, per mimesi, e perché, al contrario della provocazione, non richiede nessuna risposta per avverarsi.
Ma tu sei credente?
Matisse risponderebbe “Sì, quando lavoro”. Queste tre parole riassumono un altro paradosso fondante dello statuto che regola l’azione dell’artista, che non ha nessun timore di parlare di creazione e nella fattispecie di loro stessi come creatori. Non hanno torto ma allo stesso tempo in quel momenti, come dice Matisse, come fai a definirti? Come può un artista lavorare per un credo e credere allo stesso tempo di definirsi quando sappiamo che il momento in cui riusciamo (lo capiamo dopo) a vivere e fare l’esperienza di un momento indefinibile e sconcertante è proprio il momento in cui “non credi in niente” ed è il momento in cui forse, crei qualcosa, in cui sei stanco di cercare.