«Dipingevo già da anni quando mi sono accorto donde venivano i soggetti dei miei quadri. In fondo non dipingo altro che prigioniere. Due donne che si parlino, che cuciano vicine, che si pettinino che si vestano, sono sempre state per me le più soavi visioni. E nei quadri, sia evidente o no, queste coppie sono sempre ben chiuse in stanze piccolissime, legate dal filo col quale cuciono o dalla matassa che dipanano, legate dalle collane che si mettono, incorniciate a più riprese in scomparti e cassettoni col pretesto che sono nei palchi di un teatro […].
So dire esattamente di dove mi vengono. Sono quei piccoli telai sui quali quand’ero ragazzo vedevo lavorare le trecciaiole, che facevano la treccia per i cappelli di paglia a Settignano e tutt’intorno a Firenze. Se ne vedevano in ogni casa di paese, fin su la soglia. Di ogni particolare della mia pittura riesco a ritrovare l’origine nella mia infanzia. Tutto è evasione della realtà attuale. La mia tendenza all’antico in genere, e al museo, non è estetismo, risponde a un bisogno profondo».
Massimo Campigli