Ma allora è proprio vero che Celant “odia” la Pop Art…
Un parterre de roi che farebbe invidia a qualsiasi vernice della Tate, un pomeriggio afosissimo ma sempre dilettevole, un sito, Ca’ Corner della Regina, che continuo a considerare l’esempio di come sia possibile tornare ad un antico splendore senza togliere quel gradevole senso di “intangibilità” della storia veneziana con un recupero architettonico di prim’ordine. E, infine, una mostra molto interessante e compilativa che cerca di attrarre, riuscendovi (con qualche strizzata d’occhio al visitatore), pur con un argomento non proprio di grido: l’arte nell’epoca della sua riproducibilità, per dirla come si conviene, dal’inizio del XX secolo sino al 1975.
Il tema di The Small Utopia – Ars Multiplicata, come dissi, è noto. Dall’inizio del secolo breve, a partire dal Futurismo e dal Suprematismo russo così come dal maestro Duchamp – qui declinato a ogni pie’ sospinto con ragione e merito – , l’arte si propone di diventare democratica non soltanto nei contenuti (che, anzi, per la verità, si fanno sempre più per “addetti ai lavori”) quanto proprio nei modi di diffusione, attraverso ogni mezzo possibile: dal video, all’opera “sonora”, dal libro d’artista, alla rivista specializzata, dal multiplo propriamente inteso dell’opera in formato più accessibile anche economicamente, agli interventi artistici (i più interessanti) su materiali diversi come la ceramica, i tessuti, gli oggetti quotidiani (giocattoli, suppellettili, mobili, vestiti).
In mostra sono presenti tutte le icone più note dell’arte riprodotta in grandi numeri del XX secolo: un particolare che non deluderà il visitatore “compulsivo”.
Ed è vero che per affrontare la vastità di un tema così articolato la Fondazione Prada ha collazionato una vasta congerie di collaborazioni: il MoMA per la magnifica stanza dedicata a Fluxus, il Research Center for Artist’s Publications del Museo Weserburg di Brema per l’ampio e interessante apparato dei libri d’artista, mentre ad Antonio Somaini e Marie Rebecchi si deve la curatela delle sale in cui si tratta del cinema sperimentale e della performance vocale, infine a Guy Schraenen di Parigi pertiene la bella sezione introduttiva alla mostra sui “vinili d’artista”, un settore che merita di essere ancor più indagato (molto interessante e non privo di un appeal che trascina davvero il visitatore).
I prestiti sono importanti e numerosi e alcuni ci onorano come quelli di nostre private Collezioni fra le quali spiccano, naturalmente, quella del veneziano Attilio Codognato e quella di Dada e Surrealismo (che poteva essere italiana e che italiana non poté essere) ricoverata ora all’Israel Museum di Gerusalemme di Vera e Arturo Schwarz, sulla cui travagliata storia già scrissi qui su Artslife.
C’è un equivoco di fondo, tuttavia, nell’aver concepito questa esposizione: il considerare come “arte seriale” quella effettivamente commercializzata in multipli debitamente numerati, tipica del secondo Novecento – dalla quale viene, forse volontariamente, espunta tutta la produzione incisoria dei grandi Maestri, anche italiani – e quella che invece nasce come effetto delle nuove poetiche e si serve di materiali “poveri” o modesti e che, per sua natura, si spoglia dell’aura d’intellettualismo e di storicità che era propria del settore sino a tutto la prima metà del Novecento. Si confondono alcuni Movimenti che hanno come primo scopo la diffusione di un’estetica “a portata di ogni mente e di ogni tasca” (e che quindi può essere declinata anche attraverso la produzione di ceramiche, tessuti o mobili, come ben insegnano i movimenti d’inizio secolo, fra i quali la parte del leone va naturalmente a Bauhaus e De Stijl) e altri che fanno dei materiali di poco prezzo o poco conto (se non addirittura degli scarti della modernità) o dei soggetti “umili” (le scatole da imballaggio, ad esempio) un emblema di liberazione dalle altitudini dell’arte canonica che ancora utilizzava tele e pennelli e modalità espressive come la figurazione e l’astrazione.
Un enjambement che forse risulta un po’ eccessivo sia storicamente sia concettualmente.
E’ comunque una mostra interessante e di grande qualità didattica, se si dimentica questo minimo inciampo. Ma io non potei dimenticarlo, anche nella considerazione della scelta delle opere e soprattutto nella composizione del catalogo (edito solo in lingua inglese, forse perché l’Italia non ha più motivo di essere Patria?) all’interno del quale il contributo di Celant non è certamente incisivo (ma forse il suo intento era solo quello di inquadrare il tema della mostra: sono troppo ingenerosa nei confronti del nostro pur sempre grande critico), mentre la qualità degli altri è fortemente discontinua e molto début-de-siécle centrata.
Al piano terreno sono le belle e interessanti sale dedicate alle riproduzioni sonore su vinile di performance di artisti quali Agam, Appel, Beuys (Ja ja ja Nee nee nee, 1970), Muehl (Psycho Motorik, 1970), l’immancabile Yoko Ono “corredata” da un gustoso collage di George Maciunas, Dalì (L’apothéose du dollar raccontée par Salvador Dalì, 1975, un 45 giri…), Klein in un suo discorso alla Sorbona del 3 giugno 1959 (con una copertina, ça va sans dire, di un bel blu-se-medesimo). Ma altrettanto interessanti, e sempre nella stessa sezione, le chine di Jean Dubuffet e Asger Jorn, in particolare Sang-Claque-Dent del 1961, come la bella “valigetta da primo intervento per il bue squartato” di Nitsch del 1972.
Bella anche l’area dedicata ai libri d’artista, dove, fra i migliori sono senz’altro le straordinarie opere (in sé) di Ed Ruscha (Every Building on the Sunset Strip, 1966) e tutte le “edizioni” magnificamente creative di Dieter Roth a partire da Mundunculum del 1967. E’ proprio Andy Warhol che delude un poco con il suo Index da cui spunta un barattolino di Hunt’s Tomato Paste, giusto per soddisfare il crescente appetito borghese, direi.
Notevoli tutte le edizioni di William Copley, che – sotto il titolo di S.M.S. “Shit Must Stop”… – raccoglie i contributi di moltissimi da Duchamp a Meret Oppenheim.
Nell’altra ala del salone d’ingresso, sono raccolte le pubblicazioni del Futurismo con l’immancabile libro imbullonato di Depero Dinamo-Azari le poesie di Francesco Cangiullo, deliziose e maliziose, L’Arte dei Rumori di Russolo e il romanzo marinettiano 8 Anime e una bomba – Romanzo Esplosivo, che vorrei disperatamente leggere sul posto, e del Suprematismo russo, più composto e strutturato, più al servizio della comunità e meno intraprendente linguisticamente, ma di enorme qualità dell’arte, soprattutto con le opere di El Lissitzky. Qui sono anche le pubblicazioni cardine di De Stijl di Van Doesburg e del Bauhaus a Dessau di Gropius, nonché il fondamentale volume dalla collezione di Italo Rota di Piet Mondrian, nell’edizione tedesca di Bauhaus del 1925, Neue Gestaltung.
Al primo ammezzato trovano ricovero le registrazioni d’artista (Duchamp, Savinio, Schwitters, Russolo, ecc.). Per mancanza di tempo mi devo accontentare di ascoltare una parte dedicata agli esperimenti di John Cage, Imaginary Landscape n. 4 del 1951, per 12 radio, 24 performers e direttore d’orchestra. Posso dire che l’ascolto mi ha molto soddisfattto, pur non essendo io esperta di musica colta della seconda metà del Novecento?
Al secondo ammezzato un piccolo “aperitivo” di oggetti d’uso quasi quotidiano: le poltroncine di Albers (modello ti244 del 1929 ca.), l’arazzo di Grete Reichardt, Gretel-Stoffe del 1931, e uno strepitoso Obstruction del 1920, un mobile di Man Ray da costruire con appendiabiti che viene dalla Fondazione Marconi (tié…).
Al Piano Nobile, in ben 11 vetrinone (“qui ci sono almeno 200.000 euro in vetrine”, rivela un curatore sottovoce…), si dispiega la sezione forse più rigorosamente didattica e scenografica della mostra.
Bellissima, partendo da fondo salone, la vetrina con le piccole opere geometriche sullo studio dei colori di Rietveld e Albers (a cui va la palma con il delizioso Dominating White del 1930); nella seconda, trovano albergo le stoffe patchwork di Anni Albers, impregnate di sano modernismo, e quelle più fantastiche di Sonia Delaunay, della quale sono esposti cappellini acquerellati e una tutina-due-pezzi che farebbe scalpore ancora oggi. Vetrina piaciona ma corretta.
Nella terza s’impongono i giocattoli futuristi di Balla, Depero e di Feininger, fra cui spiccano i gioiosi rinoceronti costruiti di segmenti di legno ideati dal vulcanico Depero, che in questo settore non temeva senz’altro rivali (dal MART di Trento e Rovereto).
La quarta vetrina ancora vede protagonisti i “prodotti futuristi” con un bel display di vestiti e soprattutto gilet, sempre di Depero, il più singolare dei quali – con una buffa teoria di pesci – è cucito proprio per l’amico Marinetti. Nella quinta (forse la più interessante) prendono posto le ceramiche ideate e prodotte dai Movimenti del primo Novecento. Forse il pezzo più notevole è rappresentato da una tazzina con piattino di Kandinskij che verrebbe voglia di sottrarre lì per lì.
La sesta vetrina si addentra nella produzione coltissima di Duchamp come Rose Sélavy, con le famose valigette di piccoli mondi (Why not Sneeze, Rose Sélavy?, del 1921, riedita nel 1964), tutte riprodotte in età posteriore dalla loro concezione. E Duchamp è ancora padrone della scena nella settima, ottava e nona vetrina, con ben due Fountain riediti nel 1964, uno proveniente da Kyoto e l’altro da un’ignota collezione privata, e due Boite Alerte! del 1959 dal Centre Pompidou e dalla collezione Zignone. Vera e Arturo Schwarz prestano da Gerusalemme diverse opere duchampiane: Couple of Laundress’ Aprons del 1959 (una da Attilio Codognato), Coin de Chasteté, 1954 (1963) e l’eccellente In Advance of Broken Arm (spalaneve), 1915 (1964) in coppia con il Museo di Schwerin. Infine, troneggiano (è il caso di dirlo) due belle Roue de Bicyclette, 1913 (1964) una dalla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma e l’altra dal Hessische Landesmuseum di Darmstadt.
Il gusto si addolcisce nella decima vetrina con i cadeaux del 1921 (1974) di Man Ray (geniali! cilindri di carta sigillati dal contenuto ignoto) e i delicati Oat Flower del 1969, ciascuno con il suo bel cartellino, mummificati da Meret Oppenheim.
Meno interessante e più confusa l’ultima vetrina del grande salone di passaggio con i multipli più consueti di Dalì, Arp, Ernst, Ray e Oppenheim. Della serie: non potevano mancare le prove che anche le più piccole gallerie e case d’asta sono à la page…
Nelle sale passanti laterali, spicca un ottimo quasi-multiplo (ma non lo è) di Edward Kienholz, Sawdy, 1971-74, in tre esemplari da Aarhus (forse il migliore: Brotherhood), Utrecht e Gerusalemme. Oldenburg prepara il visitatore al Pop, con le batterie morbide in scatola da costruire e le belle gelatine colorate sui piatti da portata (Life Mask, 1966). Più penso a Oldenburg e alla sua incapacità di far male e più mi piace.
Indi si passa ai nomi dei Grandi della seconda metà del secolo e, qui, qualcosa della loro grandezza si perde, pur essendo state reperite discrete opere. Christo offre carta da pacchi ben piegata e rinchiusa in cornice, Warhol intasa ordinatamente (ma non andrebbero installate così!) le eleganti vetrine con le sue scatolone di Brillo e Campbell Soup. Lichtenstein (che si salva in questo Pop-un-po’-troppo-Pop) accontenta il gusto dei più raffinati con due bellissimi Seescape II del 1965 (uno da Colonia e uno dalla Kern Collezione di Grossmeischeid) e un’insolente distesa di Pyramid del 1968 proveniente da un’unica collezione privata.
Pacato e accattivante fa capolino Jasper Johns, addomesticato, con le sue opere più famose su lastre di piombo: Numerals, 0 through 9 del 1969 (la migliore), Light Bulb e, naturalmente, Flag. Così come altrettanto domestico è il multiplame di Wesselmann con il suo stravisto Cut Out Nude, qui in formato minimo per salotti meno pretenziosi.
La Pop Art non può essere moltiplicata (se non nelle scatole di Brillo e forse in qualche grafica): nasce come arte da riproduzione. Platone non sopporterebbe questa “imitazione dell’imitazione dell’imitazione”! E avrebbe ragione. O è la scelta delle opere che non convince?
Ma con Judd, Lewitt e Jim Dine, la musica cambia e si capisce che un multiplo “serio” è degno di essere considerato non un succedaneo dell’opera major, bensì un testimone di prim’ordine della poetica di un artista.
Ulteriormente questo concetto si esalta cambiando l’ala del salone e passando alle sale opposte, dove la stanza di arte cinetica, optical e gruppo Zero riluce di splendori misurati ma evidentissimi. Uno dei più bei “muri” della mostra è quello diviso fra Karl Gerstner e Julio Le Parc (Relief 4, 1970), a cui fa eco una parete tangente che ospita una bellissima serie di opere di Soto, Morellet (Trames Variables del 1965, magnifico!) e Agam, mentre al centro della sala convincono i multipli del nostro ottimo Colombo, Vasarely, Soto, Tinguely. Che sia la “professione dell’arte” a vincere? Sul fondo di questa sala del tutto riuscita, installate purtroppo mediocremente, sono comunque superbe le prove seriali di Fontana (due Concetti Spaziali in ceramica), Munari, Alviani, il “magnetico” Boriani e ancora Soto e Vasarely. Ma l’opera migliore di questa sezione è inspiegabilmente defilata in un’anticamera: Plus-Minus del 1961 di Heinz Mack.
Eccellente (anche perché ho la sensazione che fosse particolarmente nelle corde del curatore Primo) la sala costruita dal MoMA e dedicata a Fluxus di cui si esprime la gioiosità e la libertà d’espressione attraverso prove di grande varietà di materiali e stili. Tutte le opere sono un donativo al grande Museo newyorkese di Gilbert e Lila Silverman.
E così, coinvolgente – senza perdere un briciolo dell’arte – la sala dove protagonista è Beuys, che proprio nella serie trova una misura più concreta forse e più adatta al suo messaggio (se così posso esprimermi). I “cappotti” (vestiti, per la verità) appesi, le slitte, i feltri con all’interno i dischi della registrazione Ja ja ja Nee nee nee… tutto qui, senza esclusione, piacerà all’amante dell’artista sciamano.
Questa ultima sezione della mostra, si vede benissimo, è particolarmente interessante e curata. Anche il nostro Manzoni non poteva mancare con le sue scatolette di merda d’artista, i fiati d’artista, i corpi d’aria, le uova con l’impronta salvifica e apotropaica… e buona compagnia gli fanno le tante valigie dei Nouveaux Réalistes del 1973, che ripercorrono le rotaie parallele a quelle dell’Arte Povera, infine.
Perfetta chiusura è data dalle accumulazioni di un protagonista che l’attualità ha imparato ingiustamente a disprezzare, perché banalizzatosi nel tempo. Arman espone qui fantastiche Poubelle del 1964, barattoli etichettati e datati di cartine arrotolate e rimasugli quotidiani, scarpe sezionate e rinchiuse sottovuoto (1965), timbri lasciati cadere in una cassettina/cornice con sullo sfondo le loro inutili stampigliature… tutte opere magnifiche che non superano il1973. Mi pento e mi dolgo di considerare sempre quest’artista (ben sapendo del suo passato) come un profittatore bieco delle pieghe più malsane della serialità dell’arte (pieghe che a Ca’ Corner non sono rappresentate, peraltro).
Mostra abbondante, variabile negli effetti, notevole nelle intenzioni, ma assolutamente da visitare per chi si vuol rendere conto dell’inizio e dell’evoluzione migliore di una soluzione espressiva che, provvedendo a una scelta colta e attenta, può costituire un vero tesoro, un lacerto, e neanche troppo incidentale, dell’arte di un Grande.
THE SMALL UTOPIA – ARS MULTIPLICATA a cura di Germano Celant
Fondazione Prada – Ca’ Corner della Regina,
Calle de Ca’ Corner, Santa Croce 2215 (30125) Venezia –
fermata vaporetto linea 1 San Stae.
Dal 6 luglio al 25 novembre 2012,
dalle 10.00 alle 18.00, chiuso il martedi,
la biglietteria chiude alle 17.30;
biglietti: 10 euro, esclusi minori 18 anni e maggiori 65.
Info:
041 8109161 Venezia;
02 54670515 Milano;
www.fondazioneprada.org;
info@fondazioneprada.org