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Cos’è l’arte contemporanea?

Germano Celant, foto di Guido Harari. Vedi www.guidoharari.com

LE OPINIONI DI CAROLYN CHRISTOV BAKARGIEV E CRISTINA MUCCIOLI  

La serie di incontri organizzati al PAC (Padiglione Arte Contemporanea) di Milano non solo mostrano come il dibattito sul ruolo che può avere l’arte nella contemporaneità interessi un numero crescente di persone ma come siano discordanti e per alcuni versi antitetiche le posizioni di critici sulla questione della contemporaneità. Ad aprire il dibattito era stato Germano Celant il 14 gennaio.

Germano Celant, foto di Guido Harari. Vedi www.guidoharari.com

Il padre del termine “arte povera” aveva lanciato un duro attacco: “L’arte contemporanea è morta perché è divenuta funzionale a un nuovo colonialismo” (Russia, Cina, Paesi Islamici). L’arte avrebbe quindi perso la sua “dimensione profetica”, virulenza critica e capacità di denuncia e sovversione dell’ordine stabilito. Non sarebbe  più rottura ma struttura. “Se l’arte è stata un processo profetico, oggi invece è esclusivamente rivelazione di un nuovo potere, di un territorio. L’arte è veicolo di esotismo, di mera pubblicità turistica” ha dichiarato Celant. “Si tratta solo di un’espressione di potere (..) Non è più l’arte a sollecitare la nascita di un museo, ma sono i musei a sollecitare l’arte”.
Noi di Arslife abbiamo chiesto a due critiche che si muovono in ambiti diversi ma che vivono e lavorano a stretto contatto con gli artisti il loro parere. Una è Carolyn Christov Bakargiev, per anni curatrice al Castello di Rivoli e direttore artistico della prossima Documenta di Kassel 2012 (intervenuta al Pac il 3 febbraio). L’altra è Cristina Muccioli, critica e direttrice del Mac (Museo d’arte contemporanea) ed insegnante all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano.
“Ci sono diverse forme d’arte nella contemporaneità, molti percorsi e molti contesti” dichiara Bakargiev. “La parola arte significa tante cose e non possiamo pensare all’arte solo come a un’espressione di critica sociale”. Per la direttrice di Kassel, “l’arte è critica in molti luoghi e spazi. Se alla fine del ‘700 è sorta la figura dell’artista autonomo a cui ha fatto seguito la teoria dell’avanguardia, esiste ancora un’espressione radicale nel settore della performance e dell’arte relazionale”. Ma esistono, allo stesso tempo forme artistiche che si sviluppano partendo da problemi sociali e che si mettono a servizio della collettività.  “Alla Biennale di Sidney 2008, ad esempio, l’opera di Sharmila Samant “Against the grain. Sounds of the Silenced and Gilt”, partiva da un contesto ed aveva uno scopo specifico.

Sharmila Samant “Against the grain. Sounds of the Silenced and Gilt”

La Samant ha indagato un problema sociale: la crisi agraria in India, dovuta ai semi modificati geneticamente che non permettono al grano di riprodursi e che ha portato al suicidio un numero crescente di contadini indiani. Un problema sociale molto sentito che ha mosso l’artista a creare un’installazione molto particolare: una foresta di mille serpenti”. Questi serpenti in cartone, come delle spighe di grano, sono stati installati su degli steli di metallo su un campo di cotone. “I singoli pezzi di questa installazione sono stati poi venduti all’asta ed i proventi della vendita sono stati devoluti alla comunità di contadini indiani”. Secondo Bekargiev, l’operazione artistica non si ferma all’opera in sé. Anche un’asta oggi può rientrare nel progetto artistico completo. “Anche l’asta di Damien Hirst dal titolo Beautiful Inside My Head Forever è stata una performance molto importante: un’opera performativa di denuncia di una situazione nella quale si trovava l’arte”. Pochi artisti come lui hanno saputo costruirsi da soli la propria strategia di promozione. “Come il suo teschio tempestato di veri diamanti rappresenta in modo davvero efficace, attraverso una provocazione eloquente, una sistema dell’arte in cui il valore monetario delle opere è attribuito in modo casuale; il successo dell’asta sottolinea come dalla “Societé du spectacle” di Guy Debord siamo passati, forse irrimediabilmente, alla societé du finance”
Bakargiev è al momento al lavoro per Documenta di Kassel 2012. “Un progetto culturale, una manifestazione lontana dalle mode dell’arte” dice. Ma è presto per decidere come impostarla.
“Viviamo una fase di cambiamenti repentini che vanno in direzioni difficili da prevedere. Vorrei riportare però la manifestazione al suo carattere originario: a differenza delle Biennali, Documenta nasce come momento di riflessione artistica dopo il disastro della seconda guerra mondiale, come elaborazione di una ferita, non come occasione celebrativa e fastosa. Vorrei che tornasse ad essere così: uno strumento interdisciplinare, nutrito di connessioni tra arte e filosofia, capace, fra l’altro, di gettare luce sui meccanismi che regolano il mondo dell’arte. L’ultima volta è avvenuto con Catherine David nel 1997, ma anche in parte con Okwui Enwezor nel 2002”.
Ai moniti di Celant si oppongono dunque, nell’ambito della critica dell’arte, visioni globali di un sistema che non per forza guarda alla “funzionalità” dell’opera come ad un handicap del contemporaneo.
L’arte, secondo Celant, è senza scampo perché avrebbe smarrito la sua funzione profetica? “Sono poco competente in materia di profezie” è la secca risposta della critica Cristina Muccioli.
“Oggi siamo spaventati dalla funzionalità dell’arte. Nessuno esita a definire patrimonio artistico le torri di San Gimignano, le piramidi egizie, le terme romane, il duomo di Orvieto o il Partenone. Tutte meraviglie concepite e realizzate per uno scopo sociale, per poter servire alla vita comunitaria. L’arte ha a che fare con la sfera del vivere, con quello che Husserl chiamava il mondo della vita: è lì che nascono e si radicano i problemi del bello e quelli del senso. Niente di nuovo, e credo nulla di male sulla finalità pubblicitaria e filo-turistica. C’è chi ha come risorsa un mare paradisiaco, chi ha una laguna inquinata e poco adatta alle immersioni, su cui però sorge Palazzo Ducale o  Piazza san Marco e mi pare anche la sede espositiva dedicata all’arte, più importante del mondo. Ben venga se questi gioielli architettonici e tutta l’arte statuaria e pittorica che li adorna producono anche lavoro a aiutano la nostra evidente zoppìa economica”. Se per il critico genovese i nuovi “colonialismi” sono la Russia, la Cina ed i Paesi Islamici, Muccioli esprime il suo dissenso su questo modo di guardare al mondo.
“Mi amareggia molto la demonizzazione dello straniero che viene dal sud est del pianeta (un sud e un est rispetto a noi, naturalmente, a noi Europei che ancora crediamo di essere l’unico punto cardinale spazio temporale dell’universo). I mussulmani, mi pare di capire, suscitano sempre “in primis” fastidio e diffidenza, sono oggetto di un’ambivalenza dilaniante. Da un lato l’occidente vuole convertirli come da tradizione- ai propri valori, dall’altro essi soggiacciono a regimi dittatoriali efferati che considerano tradimento vile e intollerabile qualsiasi tentativo di avvicinamento alla nostra cultura, se non di integrazione. Si sentono attaccati e bistrattati ma al contempo sono detentori delle ultime risorse di petrolio disponibili sul pianeta. Ma il discorso con l’occidente opportunistico e demonizzante è a fiato corto. Un pozzo di incomprensione che appare come epifania di un nuovo potere”
Per la critica milanese, l’arte non è un soldatino al servizio delle fazioni sovversive dello status quo. Non nasce segnatamente per denunciare, ma essendo rappresentazione di un pensiero, nascendo da un’interpretazione della realtà tradotta simbolicamente, può farlo più e meglio di altre forme espressive poiché parla un linguaggio universale.
La Guernica di Picasso e L’urlo di Munch hanno detto sulla guerra più di ogni trattato storico. C’è però per esempio anche la tenerezza, la non invasività, l’attenzione minimalista e sottilmente mimetica di certa Land art (Walter de Maria, Robert Long) che non combatte, propone e sperimenta una nuova empatia ambientale di impronta chiaramente etica, dagli esiti estetici affascinanti. La cosa più interessante è che la nuova ispirazione artistica suscitata dalla natura nasce proprio in concomitanza con la massima tecnologizzazione del sapere: gli strumenti di registrazione elettronica e fotografica, o meccanica e poi digitale vengono utilizzati con maturità e libertà, a supporto della creatività”.
Crede anche lei che l’artista oggi non sia più il segno di “rottura” bensì di una “struttura”? “L’artista è un essere umano, facente parte di una comunità, di uno Stato” dichiara Muccioli. “Come tutti quanti noi è un essere storicizzato già alla nascita – ha un nome e un cognome che non si è scelto, al pari del suo corpo che somiglierà a qualcuno-. Mi sembra veramente ingenuo non pensarlo appartenente a una struttura, immesso in una rete di relazioni. L’ interessante è capire, se mai, come riesce ad arricchire di senso e contenuto questa struttura. Oggi ci sono i critici che imbeccano gli artisti e li farciscono come tacchini dei propri must. Asserire che l’arte “deve” essere solo e nient’altro che rottura mi sembra un esempio. Un tempo c’erano le botteghe d’arte, le scuole con i loro maestri: Cimabue, il Domenico Ghirlandaio che fra gli “imbrattati”, ci racconta il Vasari parlando degli allievi, vide in Michele Agnolo (Michelangelo) “l’ingegno a farsi in questa arte mirabile e valente”. Magari ci fosse ancora una struttura, un luogo di trasmissione del sapere e del mestiere. Poi sta all’artista in fieri superare il maestro, passare dall’avere talento all’avere stile. Si dice che ognuno infatti ha il suo stile, non il suo talento. Il talento è una predisposizione che troppo spesso viene trascurata per mancanza di strutture, di regole e di maestri. C’è poco da rompere. E’ tutto già rotto e sbriciolato. Tant’è che il singolo fa una fatica terribile ad emergere se non affidandosi scaltramente a scorciatoie provocatorie e a messe in scena di pura perversione cui peraltro siamo ormai assuefatti”.
Anche la “teoria” che l’arte, se si fa espressione di un potere, non possa essere considerata “vera arte”, viene smentita nei fatti. “Non è con una critica ingenua al cosiddetto “potere” che si possa incentivare una migliore produzione artistica”ribatte l’insegnante di Brera.
“Occorre poter disporre di risorse economiche per campare d’arte, mi pare. Il modello dell’artista povero malato asociale e disperato è stantio, naiv e ridicolo. Considerando la faccia della medaglia nascosta, mi viene in mente che virtù deriva da “virtus”, che significa anche forza e a sua volta deriva da vis. A me piace la potenza rappresentativa e simbolizzante dell’arte, in tutte le epoche.  Relativizzo a una questione di gusto piuttosto che enunciare verità sull’arte. Prediligo l’arte che suscita emozioni o perplessità, ma comunque interesse persistente per il suo significato, per il suo farsi ganglio nervoso di un mondo anestetizzato. Il contrario di Estetica non è il brutto, ma l’anestesia: l’indifferenza, la mancanza di percezioni, l’incapacità di incuriosirsi e di innamorarsi; l’arte che nasce da un sogno che diventa progetto, dalla passione per i suoi ingredienti meno considerati: i mezzi, la tecnica per esempio, perché l’uomo è un essere “tecnico” sin dai primordi, poiché consapevolmente organizza e affina i propri mezzi per la realizzazione di un fine. E amo quell’arte che si sottrae alla follia efficientistica e banalizzante più che consumistica. Gaudì venne richiesto di progettare un condominio, un palazzo borghese suddiviso in appartamenti. Con la Pedrera l’architetto portò il movimento ondoso del mare mosso in città, innervò di dinamismo anche la soffitta (dove si lavavano e si stendevano i panni) e il tetto, una terrazza con dolci colline, sculture e scalinate.  Ecco la potenza dell’arte: un’eccedenza di bellezza che nulla a che fare con la frettolosa grettezza speculativa. Daniel Libeskind apporta la stessa energia estetica alla realizzazione di centri commerciali, di musei, teatri o uffici. Progetta edifici, diceva in un’intervista, come fossero una composizione musicale, fatti di esattezza ma anche capaci –cioè potenti- di offrire profonde risonanze emotive”.
Il genio artistico oggi, secondo Muccioli, è concepito come un abilissimo stratega della comunicazione, come un mental detector, non più come un artista dalle capacità extra-ordinarie.
“Geniale potrebbe essere chi riuscisse a convivere perfettamente con questa alternanza tra razionale e irrazionale, tra spiritualità e concretezza. Il genio è colui che trova soluzioni a problemi che ancora non si sono posti. Per questo vale in certo modo il vecchio adagio secondo cui il genio è incompreso. Zaha Hadid ha fatto questo, concependo un’acropoli nel deserto. Ha trovato un’azzardatissima soluzione archichettonica al problema dell’arte, che non c’era, che nessuno si poneva. Questo pensare al contenitore prima che al contenuto avrà effetti a cascata che travalicheranno l’arte in sé, producendo migliaia di posti di lavoro, e sfruttando la circolazione di idee e identità che connatura il nostro Zeit Geist: la globalizzazione”.
Sul futuro dell’arte italiana, parlando della quale critici del calibro di Francesco Bonami hanno usato l’aggettivo “catastrofico” (riferito al nostro panorama contemporaneo), Cristina Muccioli è più cauta:
“Non sopporto gli ottimisti, che si limitano a dire che va tutto bene anche tra le catastrofi annunciate, promesse e mantenute. Nemmeno i necrofili che proclamano una morte al giorno: la pittura è morta, la scultura è morta e via di annunci mortuari. Non ho previsioni né ricette, ma una proposta: vorrei che con lo stesso impegno e serietà con cui abbiamo salvato la bellezza e l’arte del passato, con la conseguenza di un abbruttimento svilente del nostro presente, ci dedicassimo a studiare e a stanare, a valorizzare e a supportare i tanti con nome ma senza nomea, con grande talento ma senza possibilità di avere visibilità. L’arte contemporanea è ancora tutta da capire, da scoprire. Scaviamo nel futuro”.
Muccioli, nei suoi impegni attuali, in occasione dell’anno dedicato all’astronomia, ha cominciato con la mostra di sculture metamorfiche di Davide Silipo, Odùsseia, inaugurata all’acquario civico di Milano. Un ciclo di eventi fuori dai consueti circuiti espositivi. Le sue prossime tappe saranno al Museo del mare di Genova e al cinema Anteo di Milano. La scienza con il capolavoro di Kubrick è diventata narrazione, immagine e rappresentazione artistica. Nel Museo di arte contemporanea marchigiano Mac, dedicato ai giovani artisti che potrebbero essere i nuovi classici, realizzerà una mostra estiva al cui progetto sta ancora lavorando. Il prossimo 3 marzo si terrà un convegno a Pesaro sullo Spac (sistema provinciale di arte contemporanea) in cui avrà modo di parlare ancora dell’ultima mostra che ho curato per il Mac, Cassandra, dedicata alla scultura femminile. Ma scavando nel futuro, la critica milanese fa alcuni nomi che a suo avviso meriterebbero emersione e riemersione. Pietro Coletta, Giuseppe Rivadossi, Nada Pivetta, Silvia Manazza, Eugenio Moi, Giacomo Carnesecchi, Massimiliano Robino, Francesco Diotallevi, Marco Bernacchia, Valerio Ambiveri, Felice Martinelli,  Foiso Fois, Monica Mazzone, Hilla Ram, Luca Sguanci. Sono solo alcuni, il panorama italiano non è ampio, ma fittamente popolato. Basta accorgersene per trovare, ricordando ancora Picasso, anche quel che non si cercava”.

 

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