Joan Miró e il suo mondo onirico popolato da segni e figure è in mostra a Napoli. Joan Miró. Il linguaggio dei segni fino al 23 febbraio è al PAN, Palazzo delle Arti di Napoli.
E’ un percorso espositivo che riunisce ben 80 opere tra quadri, disegni, sculture, collage e arazzi, tutte provenienti dalla straordinaria collezione di proprietà dello Stato portoghese in deposito alla Fondazione Serralves di Porto. Il mondo fantastico, onirico, febbrilmente creativo di Joan Miró (1893-1983) è visibile al PAN, Palazzo delle Arti Napoli, con la mostra dal titolo Joan Miró. Il linguaggio dei segni, curata da Robert Lubar Messeri, sotto la preziosa guida di Francesca Villanti, fino al 23 febbraio 2020.
Le opere esposte coprono un arco temporale che va dal 1924 al 1981. Attraverso un approccio multidisciplinare, l’artista catalano esplora il linguaggio dei segni, il rapporto tra le immagini e il loro significato. Egli inizia a ridurre gli oggetti a semplici sagome e a elementi essenziali. Questo processo di riduzione e semplificazione elimina dal suo lavoro qualsiasi traccia di illusionismo rappresentativo e di spazio. Sulla superficie pittorica emergono simboli e iscrizioni, in un rapporto misurato e geometrico tra la figura e lo sfondo. Miró mina la logica del codice visivo: il segno diventa un sostituto di qualcosa che non è più fisicamente presente.
E’ un exihibit diviso in 9 sezioni, in cui l’osservatore si immerge visivamente ed emotivamente nel mondo dell’artista spagnolo. La prima sezione è dedicata al linguaggio dei segni, messo in evidenza nell’opera la Ballerina (1924), il corpo è ridotto a un semplice asse verticale, mentre una curva nel quadrante superiore indica le braccia distese. La sua anatomia è radicalmente riconfigurata: una semplice linea rappresenta il corpo, una gamba si libra leggermente a destra suggerendo il profilo del vestito. Un semicerchio in alto rappresenta la testa e allo stesso tempo suggerisce il profilo di un seno. Nell’estremità superiore è collocato il cuore. In basso, un insetto volteggia su un albero, mentre una ruota attaccata a una armatura che termina in una mano, trasforma la ballerina spagnola in una specie di giocattolo a molla.
Successivamente, nella sua proficua attività iniziano ad abbondare nelle sue rappresentazioni, i numeri, gli occhi, le stelle e gli uccelli. Mirò, con il suo modus operandi sostituisce somiglianza e similitudine con un nuovo ordine descrittivo. Attraverso strategie di distorsione, sintetizzazione e trasformazione metaforica, crea un mondo analogico popolato di surrogati umani o di “personaggi”. Sono figure sulla superficie senza interiorità, segni delle idee tanto quanto delle cose. In La Fornarina (1929), tratta dal dipinto di Raffaello Sanzio, focalizza la sua attenzione sull’indagine critico ludica. Con umorismo pungente, egli semplifica il corpo a una massa nera amorfa: la testa e il busto sono riprodotte in protuberanze bulbose. Il turbante, le cui estremità annodate formano delle piccole corna, sono state realizzate in maniera grossolana. Anche i sottili particolari, come i pezzetti di cielo che si intravedono attraverso il fogliame nel ritratto di Raffaello, sono stati rivisitati in una serie di schizzi rossi a destra della figura rappresentata. L’artista semplifica il suo linguaggio formale, trasformando gli occhi della Fornarina, in una forma fantastica simile a un pesce. Il dipinto trae la sua forza da queste semplificazioni, poiché l’intento è di minare la nozione tradizionale di ritrattistica come somiglianza.
Negli ultimi anni, l’immaginazione dell’artista dà vita ad un universo di uccelli volteggianti, corpi astrali, figure gesticolanti e creature fantastiche, che sembrano diffondersi senza sforzo sulla superficie. A volte la figura è “trovata” nel processo stesso della creazione, come evocata dai segni e dalle macchie presenti sulla tela grezza. Come a voler proteggere la figura nello spazio, per bloccarla sulla superficie. Mirò adotta una griglia come agente strutturante visibile, una armatura attraverso la quale mantiene le forme al proprio posto. Nella Téte d’Homme del 1935, una di quattro tele eseguite dal 9 al 14 gennaio di quell’anno, una griglia nera forma la struttura di una faccia rudimentale. In alcuni punti essa si gonfia per formare i contorni di una bocca: altrove sembra dissolversi in una chiazza di vernice disordinata. Si tratta di un primo esempio di formazione di segni, una tecnica che sfrutterà pienamente negli anni Cinquanta e Sessanta.
L’introduzione di un frammento del quotidiano nel dipinto La Publicidad del 1914, è l’inizio di una serie di opere realizzate con la tecnica del collage. L’artista è consapevole del valore degli oggetti, della carta, delle chincaglierie, dei chiodi e delle reti metalliche, tanto da trasformarli nei protagonisti di complessi giochi di significati. Nel collage del 19 aprile 1934, gioca sulla identità di Cristoforo Colombo come scopritore del Nuovo Mondo. Sullo sfondo di un vecchio poster del monumento dedicato al navigatore a Barcellona, vengono inseriti i simboli della Spagna: un toro ferito e un matador in piedi con la spada rivolta verso il basso. Un chiaro riferimento ai rapporti profondamente conflittuali tra la Catalogna e il governo spagnolo. In un’altra opera, invece, dimostra di essere decisamente più giocoso. In Personagge et étoiles dans la nuit del 17 luglio del 1965, costruisce un personaggio fantastico a partire dai frammenti di una carta stropicciata. Il volto contrasta con la figura composita del personaggio, è l’unica componente reale in un campo spaziale astratto. Il collage consente di esplorare i sistemi di segni preesistenti mentre incorpora elementi del reale. Da questa osservazione, l’artista realizzò una serie di sculture realizzate negli anni Sessanta e Settanta con oggetti raccolti nei luoghi più disparati.
Una particolare attenzione meritano i dipinti su masonite, realizzati tra la metà di luglio e la metà di ottobre del 1936, un periodo che corrisponde ai primi giorni della guerra civile spagnola. Il processo creativo avviene sul lato ruvido delle lastre, evitando di limare la superficie. Applicando materiali non ortodossi come vernice a smalto, caseina, ciottoli, sabbia e catrame al supporto, Mirò sembra voler sfidare il lirismo poetico che caratterizza i lavori precedenti. Le profonde incrostazioni di pittura e materia trasformano i segni in figure prive di identità o forma. Il colore supera i confini dei propri contorni e le ampie stesure di pigmenti applicati grossolanamente sembrano quasi delle cancellature o delle macchie. Egli descrive queste opere brutali come “pura pittura senza aneddoto”, espressioni fisiche di dolore e angoscia che sfidano l’interpretazione. I segni non riescono a comunicare, mancano dei referenti e regrediscono a semplice materialità.
Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, i segni diventano sempre più aperti. C’è una chiara evoluzione in Pittura del 1953 che misura 500 cm di lunghezza e nel magnifico Ecriture sur found rouge del febbraio 1960. Nel primo lavoro i segni sono facilmente identificabili: un personaggio, stelle e uccelli competono con tracce più astratte. Successivamente, l’artista libera i segni da qualsiasi contenuto, spoglia il linguaggio fino ad arrivare a considerarli semplici tratti. Anche il gesto grafico ha la precedenza sul contenuto. A volte i grafismi sembrano fondersi per formare segni rudimentali, ma si scompongono: il significato vacilla, esiste in potenza, come i simboli di un linguaggio perduto che non possono più essere decifrati.
Gli esperimenti di Mirò nell’ambito della stampa hanno avuto un forte impatto anche sulle opere realizzate con altre tecniche. Traspone gli effetti raggiunti nell’acquaforte e nell’acquatinta ai lavori pittorici della metà degli anni Quaranta. A toute Epreuve è un capolavoro del suo nuovo lirismo gestuale. Le 80 xilografie che illustrano il libro di poesie di Paul Eluard, sono realizzate con un numero ridotto di blocchi di legno, che l’artista ruota, inverte e combina in variazioni interminabili, consentendo alle venature del legno di rimanere visibili. Realizza segni calligrafici facendo riferimento alla struttura combinatoria delle lettere orientali, in cui il leggero cambiamento di flesso o l’aggiunta di una linea, ne altera potenzialmente il significato. L’arte e la calligrafia giapponese conducono l’artista in questa direzione.
Diversi sono i fattori che influenzano il nuovo metodo del suo lavoro: la scrittura ideografica giapponese e il successo dell’Action Painting in America e in Europa. Egli sfrutta il gesto accidentale come punto di partenza della figurazione, come Jackson Pollock. Entra fisicamente nello spazio dei suoi dipinti, muovendosi talvolta anche sopra le tele, così come i gocciolamenti e gli schizzi di vernice attentamente controllati. Nella torreggiante Femme et oiseau del 1959, combina gesto e colorazione, applicando sottili strati di vernice sulla superficie. Il risultato è una luminescenza pulsante generata dallo sfondo stesso. Le immagini sembrano emergere dal campo verde screziato; le macchie configurano una faccia rudimentale e quello che sembra un segno Pi greco, Mirò lo definisce uccello.
Nel 1973 l’artista realizzò opere tessute che il critico Alexandre Cirici Pellicer chiamò “Sobreteixims”, una leggera alterazione del termine catalano per “sovratessiture”. Le “Sobreteixims” non sono arazzi in senso tradizionale. Collaborando con il tessitore Josep Royo, Mirò produsse trentatrè Sobreteixims e Sacs Sobreteixims tra il 1972 e il 1973. Nelle fitte trame di juta, lana, cotone, canapa e una miriade di altri materiali che Royo preparò, inserì oggetti comuni. In una delle Sobreteixims, un secchio viene ruotato di novanta gradi con la base attaccata al supporto. Un pezzo di feltro pende dal contenitore, imitando l’effetto della vernice liquefatta che cola dal secchio. E nei Sacs Sobreteixim, tutti caratterizzati da un marcato carattere antropomorfo, Mirò usa vecchi sacchi di zucchero e farina come sfondo per i suoi oggetti.
Proseguendo con il percorso espositivo ci si imbatte in 5 Tele bruciate che l’artista eseguì sempre con Josep Royo nel dicembre 1973. Dopo aver tagliato la superficie con un coltello, applicò masse di pigmento su varie aree della tela, usando una torcia per stendere la vernice, poi bruciando con cura varie sezioni del supporto e rendendo visibile la struttura del telaio carbonizzata. Infine, aggiunse altra vernice e il processo ricominciava. In occasione di una mostra, Mirò ordinò ai curatori di appendere almeno due delle tele al soffitto, infrangendo la tradizionale separazione tra lo spazio artistico e quello dello spettatore.
I segni che hanno caratterizzato la sua vita, diventano una esperienza vissuta e condivisa. In un drammatico atto di trasmutazione alchemica, contemporaneamente cancella e dà nuova vita al segno. Con questo gesto finale, permette al linguaggio di entrare nel mondo come elemento materico. Punteggiando sei decenni di lavoro, le Sobreteiximis e Tele Bruciate portano la sua indagine artistica sul linguaggio dei segni, al loro pieno compimento.