Prima di Coppi e Bartali, a sfidarsi a colpi di bicicletta ci avevano pensato i Futuristi con i loro dipinti. Depero, Dottori, Sironi e Boccioni, come tutto il movimento, hanno visto nelle due ruote un fondamentale simbolo del dinamismo e della velocità che andavano professando.
2 gennaio 1960. In questo nuovissimo 2020 fischiano venti di guerra; sessant’anni fa – in questi stessi giorni e in una pace da poco conquistata che si sperava durasse per sempre – moriva Fausto Coppi. Per analogia, voglio qui annunciare che nel prossimo maggio sarà Gino Bartali ad essere commemorato, a vent’anni dalla sua morte. Due eroi di pace e un mito celebrato in tutta Italia; era una paciosa guerra su due ruote, che appartiene all’immaginario collettivo della mia generazione.
La rivalità tra Coppi e Bartali divideva l’Italia anche per le loro opposte scelte politiche. Il primo, detto il Campionissimo era dichiaratamente di sinistra, mentre il secondo, detto il Ginettaccio, era cattolico praticante e democristiano. Coppi era inoltre peccatore molto chiacchierato per la sua relazione con una signora sposata detta la Dama Bianca, che subì persino un processo per abbandono del tetto coniugale. Mentre Bartali, felicemente e fedelmente coniugato, durante la guerra era stato un eroico partigiano e salvatore conclamato di molti ebrei. Se si pensa che erano gli anni della Guerra Fredda, e che il divorzio non era consentito, ce n’era d’avanzo per dividere gli animi e le coscienze. Comunque, fra Coppi e Bartali la rivalità era blanda, e a sigillo della loro storia c’è una bellissima fotografia che li ritrae insieme durante il Tour de France del 1952, mentre – ambedue chiaramente spossati – si passano una bottiglia d’acqua.
La mia tifoseria di quegli anni (tenevo per Coppi), si sposa qui inevitabilmente con il mio mestiere. La bicicletta è stata soggetto molto frequentato fra gli artisti del Primo e del Secondo Futurismo. Fortunato Depero è stato il più prolifero nella tematica di Forza + Velocità, analisi compositive con datazioni tra il 1917 e il 1943; Gerardo Dottori nel 1914 esegue una suggestiva allusione ciclistica; Mario Sironi nel 1916 dedica al Ciclista due interpretazioni, seppure ormai lontane dal Movimento Futurista.
Va però detto il loro peccato originale: l’adesione al gran completo al Sindacato Nazionale Fascista Artisti. A farne le spese a livello storico, interpretativo ed espositivo è stato Umberto Boccioni, esponente primario e firmatario nel 1909 del Manifesto del Futurismo, scritto da Filippo Tommaso Marinetti. Ma il povero Boccioni non è stato fascista, per il semplice motivo che proprio non c’era. È morto infatti nel 1916. E tuttavia, per una tara storica del tutto immotivata, nel dopoguerra le vicende del suo collezionismo pubblico e privato hanno subito incredibili vicissitudini.
Si contano sulle dita di una mano le composizioni del periodo futurista esposte nei musei italiani d’arte moderna. Per vederle si deve andare al Whitney Museum o al MoMA di New York. Hanno lasciato liberamente l’Italia come se le Istituzioni volessero sbarazzarsene. Eppure è stato il più grande: intorno al 1910 – direi ancora una coincidenza decennale – ha eseguito Dinamismo di un ciclista, esposto nel 1913 a Firenze alla mostra di Lacerba. È un’opera assai complessa, squillante di colori, che ribadisce l’unicità di una ricerca del tutto originale, risolta secondo traiettorie e curve di linee-forza, e che fonda quindi i basilari canoni espressivi del Futurismo.