State of, nuovo spazio espositivo milanese di Porta Romana, presenta la mostra FAME. Composta da 8 opere di Edoardo Manzoni, l’esposizione approfondisce un tema caro all’artista: il rapporto uomo-animale e il valore dell’arte come illusione.
Chi di noi almeno una notte non si è svegliato di soprassalto scuotendo le gambe? Forse continuando una corsa iniziata poco prima nel sonno, quando nel mezzo di un bosco tenebroso ci siamo sentiti braccati. Non ricordiamo le creature misteriose che lentamente andavano stringendoci, ma possiamo ancora sentire – leggermente sudati nel letto – il loro respiro lontano, la loro presenza invisibile, la loro indefinita pericolosità. E soprattutto la nostra impotenza. Queste piccole paure oniriche ci riportano, nello spazio del sogno, a quell’epoca primordiale dove la caccia non era un’attività totalmente sbilanciata a favore dell’uomo, ma viveva di confini labili dove preda e predatore si confondevano alternandosi.
Un sentimento simile è possibile percepirlo varcando le soglie di State Of – nuovo spazio espositivo di Porta Romana, Milano – e ritrovandosi al centro di FAME, la mostra che riunisce 8 opere di Edoardo Manzoni. Nato a Crema nel 1993 e cresciuto in una cascina di campagna, il tema della caccia abita la sua ricerca artistica da molto tempo. Questa esperienza partecipa nel trasformare l’area dell’esposizione in tempio artistico votato al culto dell’inganno, dell’inseguimento, dell’illusione. Sembra un teatro mistico, ma quelli elencati precedentemente non sono che tre elementi principali dell’arte della caccia.
Arte della caccia non è una formula linguistica casuale e si muove almeno su due binari di comprensione differenti. Da una parte le opere di Manzoni si ispirano ad antichi strumenti predatori e ne riproducono con una certa precisione le forme estetiche – quasi totalmente votate alla funzione, predatoria ovviamente – rifacendosi dunque all’idea di arte come saper fare, come abilità e tecniche accomunatosi nel tempo e tramandate da cacciatore in cacciatore; dall’altra l’espressione evoca la forza dell’arte come meccanismo illusionistico, trappola estetica che, nelle soluzioni più riuscite, è in grado di sedurre e catturare lo sguardo dell’osservatore.
Manzoni sembra così volerci suggerire la dimensione più estrema del fascino dell’arte, quella che la porta ad attirare e lusingare chi cade nel piacere della sua trappola: a lui l’opera ben riuscita dona la possibilità di ingannarsi. Dolce bugia e tenero raggiro, riassumibile, guardando all’Allodoliere in esposizione, proprio all’espressione specchio per le allodole. L’opera ricorda nella sua struttura (e funzione) quella di un’antica trappola per uccelli, che attirati dal sistema di specchi riflettenti la luce venivano presi in trappola. Stessa sorte toccherebbe, nello spazio inevitabilmente chiuso dell’esposizione, all’occhio umano.
Per chiarire meglio il concetto voltiamo lo sguardo per soffermarci su una coppia di stampe su polistirene appese alle pareti della sala. Le immagini restituiscono le scene immortalate in una vecchia foto di caccia appartenente all’archivio della famiglia dell’artista, il quale ha poi sottratto dalla rappresentazione l’animale predatore (il cane) per lasciare solo la preda (una lepre). Essendo ambientato in un campo, la scena ci ricorda che lo spazio aperto non è solo un luogo dove la preda è esposta, ma anche quello dove il predatore sfrutta la conformazione dell’ambiente per nascondersi e scomparire alla vista della vittima. Ovviamente la situazione potrebbe presentarsi a ruoli invertiti (la preda si nasconde alla vista del predatore esposto) e anche in contesti differenti come quello di un’esposizione artistica, come la mostra in cui ci troviamo immersi.
Nell’ampio ma denso spazio di FAME rischiamo allora di confondere il nostro ruolo di osservatori e di trovarci improvvisamente osservati. Accade quando, voltandoci, vediamo nell’angolo un fantoccio umanoide che indossa un pelliccia e sembra interrogarci sulla nostra natura. Quello che indossiamo costruisce la nostra identità? Ci circondiamo di animali, oggetti derivati dalla natura, prodotti che da essa preleviamo, per assoggettarla? Oppure per avvicinarci, in maniera quasi disperata, alla sua dimensione intimamente irraggiungibile? L’umano tentativo di assoggettarla è, in definitiva, dettato dalla sete di potere o dalla paura di non poterla comprendere?