Attese infinite, che non si cristallizzano solamente negli interni casa e negli angoli metropolitani. Ma escono. Sono orizzonti dilatati, campagne tagliate e sconfinate dell’America urbana e rurale, paesaggi totalmente anti retorici. C’è moltissimo silenzio anche nelle lunghe prove paesaggistiche di Edward Hopper dalle facciate spezzate dense di luce. E ombre. Un aspetto della sua pittura ancora poco indagato, a discapito delle sue malinconie claustrofobiche delle “classiche” prospettiva domestiche. Tutti noi siamo abituati a percepire la solitudine di Edward Hopper dalla sfumatura esistenzialista delle sue stanze appunto, spesso rubate da un indiscreto occhio esterno, sempre accompagnate da pochi personaggi desolati. La vita da lui dipinta infatti è la grammatica del mondo moderno: stazioni di servizio, case, bar, fari e navi, ma anche scorci degli interni di appartamenti, alberghi e cinema. Per questo la Fondation Beyeler di Basilea sceglie di aprire le porte e uscire, viaggiare nell’America urbana e rurale, fino alle province più estreme, per concentrarsi sulla produzione paesaggistica del grande artista dedicandogli una raffinata mostra, visitabile fino al 17 maggio 2020.
Anche nei paesaggi, dove l’uomo o il passaggio dell’uomo rimangono comunque presenti, a descrivere l’atmosfera hopperiana sono gli inconfondibili chiaroscuri, gli accostamenti cromatici, le prospettive uniche e il sentimento che qualcosa sia appena successo o stia per succedere. Numerosi eventi invisibili sembrano sul punto di verificarsi, oppure già si sono verificati, e sulla tela rimane solo una condensa malinconica, una patina di occasione mancata, di desiderio inappagato.
La Beyeler esplora allora gli iconici paesaggi sconfinati dell’America alla ricerca dello stesso sentimento, mai approcciato prima sotto questo punto di vista. La mostra comprende acquerelli e oli dagli anni 1910 agli anni 1960 e fornisce quindi una panoramica completa e avvincente delle molteplici sfaccettature che connotano la pittura hopperiana.
Nato come illustratore, Hopper ha delineato un proprio stile unico e lontano dai principali movimenti del tempo. Il calibrato ed evocativo gioco intorno alle luci e alle ombre ha caratterizzato l’impianto scenico dei suoi dipinti, tesi nel paradosso che consiste nella resa artificiosa di una scena all’apparenza spontanea. Questo taglio suggestivo ha finito poi con l’influenzare importanti pittori contemporanei come Peter Doig, ma è inevitabilmente entrato anche in rapporto quasi simbiotico con il linguaggio filmico, ispirando pietre miliari del cinema quali Intrigo internazionale (1959) di Alfred Hitchcock, Paris, Texas (1984) di Wim Wenders o ancora Balla coi lupi (1990) di Kevin Costner.
Questo aspetto è ulteriormente sottolineato nella sala culmine della mostra, dove risiede il bellissimo cortometraggio in 3D Two or three things I know about Edward Hopper del regista e fotografo Wim Wenders (autore di Il cielo sopra Berlino; Non bussare alla mia porta). Spiega Wenders, fin da subito entusiasta del progetto, che “avrei girato un film di 5 o 6 ore da quanto materiale creativo avevo a disposizione ma alla fine sono riuscito a riassumere una idea di progetto anche in questo corto. La cosa che più mi colpisce della pittura di Hopper è che osservando i suoi quadri sembra sempre che debba accadere qualcosa che poi alla fine non accade mai. Proprio questa tensione e attesa che lo spettatore deve interpretare e immaginare è la forza dell’opera di Hopper.” Una interminabile attesa che perenne aleggia su quelle opere dinamiche che scorrono sullo schermo, che lega questa infelice storia d’amore filmica messa in scena da Wenders. Infelice, tanto lirica. Di una poesia pura, come la luce e la realtà dipinta da Hopper.