Concilium e l’evoluzione del concetto di queer in ottica teologica. Diventare il corpo queer di Cristo
Se per anni e tutt’oggi la sacralità della vita è sempre stata agita contro la blasfemia di una libertà di scelta che si suppone la oltraggi, è anche vero che una solida riflessione sulla divinità intrinseca ai corpi e alle varie differenze sessuate/li sia mancata sul versante opposto.
Ecco perché l’ultimo numero del 2019 della rivista internazionale di teologia Concilium, “Teologie queer: diventare il corpo queer di Cristo”, si legge come un saggio di studi di genere cui apporta frizzante linfa teorica.
Il volume affronta con dedizione di particolari l’evoluzione del concetto di queer e delle principali prospettive teoriche che lo hanno sostenuto (Butler, De Lauretis, Haraway, etc …) con spiccato intento di mutuarne l’impronta anti-deterministica e performativa rispetto all’identità nell’interpretazione della Bibbia, delle parabole rabbiniche o del Corano. L’altro esercizio di rilievo teologico (e politico) che scorre dichiaratamente nel volume è quello postcoloniale.
L’esegesi dei testi sacri necessita di nuovi s-oggetti di interpretazione e di nuove pratiche della cristianità che si avvicinino a quel corpo dell’umanità spesso frantumato e gerarchizzato dalla collusione ecclesiastica con il potere. Ed ecco che l’esperienza diretta di persone LGBTQ+ e di teolog* proveniente dalle aree del mondo con un passato di dipendenza coloniale da varie potenze europee diventa centrale per un racconto dei corpi di Cristo sempre indefinito, combattuto, marginalizzato. Ma anche festoso, come nella liturgia erotica degli abbracci e baci e racconti autobiografici di persone escluse dalle proprie comunità per via della propria identità di genere o orientamento sessuale (si veda il caso del caffè teologico queer in Messico, p. 129).
La forza di questo volume risiede, in parte, proprio qui, nel tentativo di superare l’approccio non solo violento ma anche benevolo dello sguardo patriarcale sulle persone queer che miri al loro pentimento per poter ricevere redenzione. Non viene imbellettata una nuova teologia della carità, ma si spinge teoria e trasformazione. Si va oltre la denuncia del potere insito nell’interpretazione di un testo sacro a partire da un preciso posizionamento sociale, sessuale, culturale, escludente.
Si arriva a teorizzare la Bibbia come intrinsecamente queer perché, innanzitutto, redatta molto prima dell’introduzione dei moderni sistemi di classificazione di sesso-genere-parentela. Dunque, non sempre aderente a modelli eteronormativi. La domanda che si vuole sfidare è proprio se la Bibbia sia contro l’omosessualità, suggerendo che sarebbe altrettanto legittimo chiedersi se la Bibbia sia a favore dell’eterosessualità. E credo che il passaggio sul racconto Gen 2 sia più significativo del senso queer della Bibbia rispetto alla spiegazione alternativa del peccato di Sodoma attribuito invece a una mancanza di ospitalità così come avanzato dagli autori (pp. 136-140).
Adamo viene tradotto come ‘creatura terrena’, forgiata dalla terra da Dio, androgina e che in seguito sarà scomposta in maschio e femmina da Dio stesso.
Ma è l’atto della creazione a essere fluido, inclusivo, queer: Dio crea ha-‘adam e subito si pone la questione della sua solitudine, più che incompletezza. E così crea i mari, il cielo, gli animali. E chiede ad ha-‘adam cosa gli corrisponda maggiormente. La creatura non è soddisfatta e Dio decide di creare qualcosa che, questa volta, sia fatta della stessa materia di ha-‘adam. Alla fine Adamo sceglie ciò che ha preso forma da lui. Al di là degli esercizi teologici più raffinati e specifici, si può notare il tentativo di mettere in discussione la rigida dualità di genere nella Creazione divina, la complementarietà dei ruoli maschili e femminili, la sacralità della libertà di scelta che Dio offre ad ha-‘adam.
Nel corso dell’ultima decade si sono registrate diverse produzioni artistiche che hanno esplorato il vissuto di persone LGBTQ+ doppiamente escluse dalla propria comunità nazionale o religiosa. “Stories of our lives” del 2014 è un film che contiene 5 brevi documentari su testimonianze di discriminazione in Kenya raccontate da persone LGBTQ+ ed è stato presentato durante il Rome Independent Film Festival del 2015. Altro esempio eloquente dell’interesse di cineasti dell’ultima generazione verso il connubio religione e diversità sessuali è il documentario “Invano mi odiano” di Yulia Matsiy, giovane regista di origine russa che si è specializzata a Milano e ha portato alla luce un notevole lavoro sulle comunità cristiane LGBTQ+ in Russia.
Questo sguardo è magnetico verso la complessità dei vissuti e della cultura dell’intimità che dovrebbero guidare l’azione civile e politica. Ci sono persone, emarginate per la loro fluidità di genere o di orientamento affettivo/sessuale, che non rinunciano al desiderio di infinito, di far parte di una divinità condivisa. E proprio per questo vengono allontanati anche dai collettivi LGBTQ+ mainstream che non ritengono plausibili le loro istanze di doppia appartenenza.
C’è un conflitto culturale nell’interpretare e agire la lotta contro le discriminazioni delle persone queer e il volume lo illustra dalla visuale di alcuni studiosi in Sud America, Sudafrica, in Malaysia. Se di primo acchito può sembrare che l’approccio alle differenze sia di tipo cross-culturale, enfatizzante dei confini tra culture e omologante delle caratteristiche più interne, scorrendo la lettura si può notare che non sia questo il caso.
L’analisi intreccia varie dimensioni etniche, religiose, di parentela, di genere, già all’interno di uno stesso villaggio, e, soprattutto, traccia inedite similarità e contrasti nei contenuti di studio tra chi è emigrato da alcuni territori extra-europei per operare e lavorare in quanto teologo in Europa e chi è rimasto in quelle terre. Qui si nota l’adeguatezza nell’utilizzo della prospettiva queer, che va oltre sesso-genere-parentela, fino ad abbracciare il significato del divino e del politico in un grumo di sfaccettature. In chi interpreta e in chi viene interpretato.
La bellezza del frastuono di questi pezzi di pensiero che non cozzano tra di loro indica che può esistere una teologia del corpo nel qui e ora e non solo nel rimando escatologico tipico di ogni religione, che non può non interessarsi al futuro dell’esistenza e alla trascendenza. Il corpo non è tanto simbolo, quanto metafora di Dio che accoglie analogie in figure nuove, terze, inconcluse.
L’eterno della parola religiosa non viene messo in discussione come potrebbe apparire da questo sommovimento di corpi, pratiche, identità. Bensì si punta sull’idea di cambiamento insito nell’umanità così come lo è nella divinità e – dal punto di vista dei testi sacri – nel ribadire come quei corpi rigettati e marginalizzati anche dalla Chiesa sono il corpo di Cristo. Il corpo queer di Cristo, appunto, che non può non avere il volto di coloro che sono discriminati. C’è continuità in questa trasformazione dell’umanità e trasfigurazione del divino.
Uno degli aspetti più interessanti dal punto di vista laico e intersezionale è ciò che viene elaborato nell’ultimo capitolo sulle teologie musulmane queer. Il volume dà spazio all’Ebraismo così come ad altre teologie africane, e rispetto all’Islam l’autore originario della Malaysia e residente da tempo in Inghilterra riprende un lavoro di classificazione delle letture del rapporto tra interpretazione del Corano e teorie/movimenti LGBTQ+. Tali letture fanno riferimento a come alcune istanze di libertà di espressione e di uguaglianza siano state recepite in alcune zone del mondo che hanno subito un retaggio coloniale occidentale.
Tra queste si annoverano la lettura dissidente, resistente, culturale, nazionalista, liberazionista e dissenziente. Queste si differenziano dal punto di vista di chi – da eterosessuale – opera interpretazioni inclusive delle persone omosessuali musulmane (dissidente), oppure chi le opera da omosessuale (resistente).
La discussione più saliente è quella relativa alle letture liberazioniste e dissenzienti proprio perché le più eloquenti dal punto di vista delle varie sfaccettature prese in considerazione.
Se una lettura liberazionista si presta a un approfondimento del pensiero e delle pratiche politiche queer da un posizionamento di comunità musulmane non cristallizzate in un altrove esotico ma presenti ad esempio nelle nostre stesse città europee, dunque un posizionamento scevro da macchiettistiche assimilazioni culturali; dall’altro lato, le letture dissenzienti cercano di sventare il rischio che la critica di estraneità colonizzante mossa ai movimenti di rivendicazione LGBTQ+ da parte di alcune minoranze musulmane si fossilizzi il meno possibile su una sola direzione e resti costantemente aperta alle varie implicazioni che comporta il rigetto di una modalità visibile di lotta che non apparterrebbe a determinati bacini culturali.
In questo capitolo in oggetto, l’autore riporta le parole raccolte nel corso della sua ricerca di una donna bisessuale musulmana che esprime in maniera puntuale la logica dissenziente:
L’omosessualità non è stata importata dall’Occidente, ma i movimenti per i diritti sì. E con il movimento per i diritti gay, a volte mi sento come se stessimo importando qualcosa in blocco e senza prendere in considerazione che tradizionalmente o culturalmente, psicologicamente, qui facciamo le cose in modo diverso. Forse a volte essere così aggressivi lavora dentro di noi.
L’autore mette in rilievo come queste argomentazioni dovrebbero elevarsi anche rispetto a varie manifestazioni di taglio nazionalistico e sciovinista che pure alcune comunità musulmane portano avanti in varie città europee per rivendicare la loro identità sociale. L’aggressività si esplica nella lotta politica, e nella lotta religiosa, e non pare esserci accusa di importazione coloniale in questo senso.
La politica ha a che fare con il senso religioso dalla notte dei tempi. Il contratto sociale stesso è quel dispositivo laico che in età moderna ha funzionato da sostituto di Dio per rendere accettabile l’idea di una società in cui alla base il singolo delega l’utilizzo della violenza giustificata allo Stato. Questo patto non esiste più, la Storia ha voltato pagina, sosteneva Luisa Muraro con “Dio è violent” nel 2012.
Di sicuro, quel che resta un faro è che la visibilità e le pratiche di invisibilizzazione sono già degne di nota politica. E quel cui difficilmente si può abdicare è che il personale – come la religione nelle società secolarizzate – è già intriso di significati sociali. E che Dio fa ancora discutere dell’ “inseparabilità fra teologia, politica e potere” (p. 161).