La notizia arriva dalla stampa di Lubiana, città slovena dove Frank Uwe Laysiepen, in arte Ulay, viveva da più di dieci anni, e da amici artisti che l’hanno ricordato sui social network
Probabilmente non esiste un giorno preciso, un’ora ed un luogo in cui le cose finiscono o forse sì. L’Arte, su questo non può pronunciarsi. Eppure, in una giornata come quella odierna, 2 marzo 2020, apprendere – dalla stampa di Lubiana, città slovena dove viveva da più di dieci anni, e da amici artisti che l’hanno ricordato sui social network – della scomparsa di Ulay mette a disagio persino il pubblico del grande palcoscenico performativo che egli, insieme con Marina Abramović, ha reso memorabile.
La morte di Frank Uwe Laysiepen – questo il vero nome dell’artista – apre una ampia riflessione: sul linguaggio dell’arte performativa. Sul rapporto simbiotico eppure controverso e paradossale con la Abramović, sul ruolo che Ulay ha avuto nel contemporaneo come artista. Se è vero, infatti, che Egli è forse troppo legato al sodalizio con la artista serba e compagna di parte della sua vita, non è da dimenticare l’individualità autoriale di Ulay. “L’estetica senza etica è cosmetica”, affermava, senza compromessi e, talvolta, anche ai margini del mercato, rigorosamente coerente ai propri principi.
Figlio e poi orfano di un gerarca nazista, ha vissuto in maniera sempre conflittuale le sue origini, allontanandosi dalla Germania, dalla moglie e dal figlio, unendosi, ad Amsterdam, a posizioni anarchiche. È in Olanda che si avvicina alla fotografia, con particolare interesse per la Polaroid ed un suo approccio artistico. La sua ricerca, così, si sviluppa attorno al concetto di identità e di corpo, sino a tradursi in live performance, nella metà degli anni ’70, insieme con artisti quali Alison Knowles, Gina Pane, Laurie Anderson, Vito Acconci e Jürgen Klauke.
Costante è la sperimentazione sull’estetica del corpo: ne registra il fascino fluido extra genere, cattura la sensibilità femminile anche in sé. Molte le polemiche che accende nel pubblico, dinanzi ad opere che affrontano l’intimità in maniera esplicita ed equivoca, oltre che provocatoria. Di lì a poco, conoscerà Marina Abramović e, il resto, è storia. Nel 2009, si trasferisce a Lubiana, gli viene diagnosticato un tumore; decide, così, di intraprendere un viaggio per visitare i luoghi fondamentali della sua vita e incontrare le persone care per un addio. La malattia diviene un progetto, il più importante, attraverso cui ripercorrere a ritroso la sua esistenza. Ed interrogarsi su tutto ciò che ha vissuto e non solo: Project Cancer 2013 è il documentario finale di quel racconto. Oggi è una testimonianza fondamentale ed un ricorso immenso.
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Azzurra Immediato