“La bellezza a basse temperature, è bellezza” scriveva Iosif Aleksandrovič Brodskij, poeta russo e premio nobel per la letteratura, nel suo saggio del 1989 dedicato a Venezia, Fondamenta degli incurabili. Ma cosa succede a questa bellezza invernale, come quella antartica, quando le temperature si alzano e il gelo svanisce?
In tempi di emergenza ambientale come i nostri è inevitabile chiedersi come il problema del cambiamento climatico impatti il mondo, anche culturale, e come gli artisti si rapportino a questo fenomeno che continuerà a modificare, oltre al paesaggio, la vita di tutti gli esseri viventi. Poche settimane fa, il 9 febbraio, in Antartide il termometro ha toccato 20.75 gradi Celsius, la più alta temperatura mai rilevata sul continente dell’emisfero australe. L’Organizzazione meteorologica mondiale ha reso noto che negli ultimi decenni l’aumento esponenziale della temperatura ha causato lo scioglimento del 98% dei ghiacci che ricoprivano il continente, dimora ideale per pinguini e foche.
Cosa potrà emergere da questo scioglimento e come si adatteranno gli animali che li abitano sembrano essere due delle domande che si è posto anche l’artista francese Pierre Huyghe quando nel 2005 ha realizzato il film A Journey That Wasn’t (Un viaggio che non era). In 21 minuti e 41 secondi Huyghe condensa le riprese di una spedizione nel circolo antartico, intrapresa nel febbraio di quell’anno, per verificare alcune voci sugli effetti del riscaldamento globale nella zona, che avrebbero reso accessibili nuove aree dell’oceano e rivelato nuove terre emerse. Si vociferava, inoltre, che un particolare animale, un pinguino albino, si aggirasse nella regione e uno degli obiettivi dell’equipaggio era trovarlo.
Il lavoro dell’artista ha spesso a che fare con la linea, estremamente sottile, che divide realtà e finzione, come nel caso di altri due film d’artista: The Third Memory (2000) e Blanche Neige Lucie (2008). Il titolo stesso dell’opera suggerisce che la spedizione potrebbe non aver avuto luogo, e ad alimentare questo senso di dubbio c’è l’alternarsi, nel film, di immagini del pinguino e della spedizione, con quelle della rievocazione della stessa sotto forma di performance sonora e visiva, organizzata da Huyghe nel Central Park di New York. Il viaggio diventa tanto importante quanto la sua messa in scena, il fatto reale equivale la sua narrazione. Raccontare la storia di questo viaggio nel luogo meno popolato del mondo, dove gli effetti del problema ambientale sono più evidenti, attraverso uno spettacolo ambientato su una pista di pattinaggio sciolta, all’interno del polmone verde di una delle città più popolate del pianeta, sembra un tentativo di portare alla luce una conversazione ben precisa.
Il lavoro di Pierre Huyghe partiva da dicerie, voci di corridoio, mostrandoci una situazione in cui la finzione era tanta quanta la realtà, un pò come nel paradosso del gatto di Schrödinger. Ma le immagini che negli ultimi giorni stanno affollando le nostre pagine social e i telegiornali sono così reali da travolgere e sconcertare. Nell’ottica di un’opera d’arte attiva, aperta e relazionale, come in questo caso, il pubblico svolge un ruolo centrale: interpretare la narrazione e decidere se ciò che osserva sia realtà o finzione, se crederci o passare avanti, un pò come si passa avanti quotidianamente scrollando le nostre home dei social network. Nel momento in cui l’arte ci chiama a essere attivi, ci interroga, è nostro dovere, se non reagire, almeno di chiedersi che tipo di pubblico siamo e vogliamo essere.