Com’è cambiata la vita degli artisti durante la quarantena? Come sono mutate le loro abitudini, il loro sentire, il loro lavoro?
L’aria sospesa, gli spazi dilatati, i silenzi, il fluire sordo del tempo. L’attesa pervasa di un chiarore surreale e indefinito che scandisce le vite della quarantena. Abbiamo chiesto a una serie di artisti di raccontarci lo scorrere del tempo dalle proprie case, trasformate in temporanei atelier. La vita di un artista ai tempi della pandemia.
I tempi di Giovanni Oberti
Milano, 9 aprile 2020
In questi giorni di sole, dopo ormai un mese di quarantena, progetto evasioni che forse mai riuscirò ad attuare. Passo invece da una finestra all’altra seguendo la luce e guardando dal terzo piano i tetti delle case e dei laboratori sotto di me.
Osservo le persone che passeggiano con il cane, i fattorini in bicicletta e i volatili di varie specie che, poveri loro, si sono illusi sia cambiato tutto; girano a mezz’aria indisturbati e si posano al centro della strada o alla fermata vuota dell’autobus. Ho addirittura visto per due sere consecutive un airone cinerino che volava tranquillo tra le case e lungo la via dove prima sfrecciavano motorini e automobili. Sembra quasi che la natura voglia riprendersi i suoi spazi in questo momento più lento, in un silenzio nuovo che, inspiegabilmente porta con sé più calma che paura. Ora ho molto più tempo per accorgermi di questi cambiamenti e per guardare fuori dalla finestra con altri occhi.
In casa siamo in due. Abitiamo insieme e siamo complici da dodici anni, da sette in questo piccolo bilocale nella zona sud di Milano e per la prima volta ci siamo trovati a dover dividere ventiquattrore al giorno quello che prima usavamo solo come una sorta di nido per la notte, avendo entrambi uno studio fuori per lavorare. La casa è ben esposta, sia al sole che alle correnti d’aria, di conseguenza in questi anni l’abbiamo riempita di piante e abbiamo creato delle perfette zone per la lettura con il sole che filtra tra le foglie, la mattina sul divano e il pomeriggio, fino al tramonto, sul letto.
Il tempo per leggere non manca, romanzi, critica d’arte, monografie, raccolte di poesie, riviste di moda, fumetti… Confinandoci nel virtuale, poi, con l’e-book, che usiamo da un paio d’anni, soddisfiamo all’istante la nostra curiosità. La tentazione di accedere a un catalogo di film e serie tv online, come quella di controllare spesso i social network, ovviamente c’è, ma in questo tempo rallentato abbiamo ritrovato il piacere di ascoltare la musica e riscoperto la radio.
Non possediamo un televisore, quindi il silenzio è interrotto da lunghe discussioni sul futuro, per esempio sul senso che avrebbe fare un figlio oggi, sullo stile di vita che ci ha condotti qui e ora, sulla necessità etica di smettere di mangiare animali, ma anche di questa Europa sospesa, di questo mondo in bilico tra individualismi e necessità di una solidarietà mondiale. Il silenzio è interrotto anche dalle sirene delle autoambulanze, e allora cerchiamo in rete le notizie e quando alcuni giorni fa abbiamo visto le camionette dei militari a Bergamo che trasportavano le bare di tanti nostri concittadini, i brividi hanno incominciato a correre per le schiene; un’intera generazione se ne sta andando. Qualcuno ha scritto: “un anziano che muore è una biblioteca che brucia”. E anche questa consapevolezza ci mette i brividi.
Appuntando le emozioni, in un dialogo continuo con me stesso, formulo nuovi pensieri e l’inquietudine per il lavoro, tuttavia, mi preoccupa. In questo momento il mio lavoro va a rilento, qui a casa posso “solo” disegnare e leggere. Mi manca lo studio, non ci vado da più di un mese e qui ho imparato a usare il poco spazio che ho a disposizione: un lato del tavolo della cucina per il computer e i fogli da disegno. Ma non mi lamento, non ho mai avuto bisogno di molto spazio per fare quello che devo fare. Avevo due mostre programmate a maggio, entrambi i progetti sono stati fortunatamente rimandati e non annullati, aspetto solo il momento di poter tornare in studio per finire le installazioni che stavo preparando. Il titolo che ho pensato per una delle due mostre è un titolo profetico, visto che l’ho scritto in tempi non sospetti: I muri sentono l’amore e la rabbia, ma anche la solitudine e la malattia. Non sanno cos’è la musica, la ripetono.
Da questa esperienza forzata credo che dovremo imparare come usare il nostro tempo, perché tornare alla normalità, la normalità del prima, che adesso abbiamo capito quanto fosse sbagliata, non sarà possibile. La privazione da una parte e la scoperta di un nuovo modo di stare insieme, dall’altra, ci ha fatto capire con profondità il valore di ogni cosa. E la solidarietà degli umili, la preoccupazione vera per i nostri vicini di casa, ai quali prima eravamo indifferenti, deve renderci consapevoli, anche nel nostro lavoro, che il senso di appartenenza dovrà essere il motore di un nuovo modo di vivere. Dovremo unire le forze. Lontana dovrà essere la tentazione di guardare solo a noi stessi.
Avremo perso davvero tempo se siamo riusciti anche per poco a far emergere pensieri che avevamo soffocato? In che modo questo tempo che abbiamo potuto dedicare a riconoscere la nostra inconsapevolezza, e quindi la voglia di colmare questo vuoto, potrà trovare una forma? O la forma è solo di cose, di oggetti che carichiamo di chissà quale significato rispecchiandoci in essi per cercare dentro di noi la risposta ad una domanda che non sappiamo ancora formulare?
buon lavoro