Se è vero che il peggio deve ancora arrivare, non basterà continuare a voler semplicemente rimettere le cose al loro posto com’erano prima. Quello che ci aspetta adesso è un salto nel buio e il bello è che dobbiamo buttarci in fretta, senza perder troppo tempo. Il coronavirus ha cambiato radicalmente la nostra vita, e non solo perché ci ha costretti a barricarci in casa prigionieri della nostra paura. Ha fatto molto di più: ha cancellato una visione del mondo, l’illusione di poter vivere al di sopra dei propri mezzi, e il progetto di un sistema governato ferocemente dalle parole d’ordine liberiste che lasciava le briciole agli esclusi solo per potersi rigenerare sulla loro pelle. Ma ora che le briciole non ci saranno più per nessuno, sarà la base di questa struttura che cederà per prima sgretolando la piramide che su di lei si reggeva.
Qualcuno ha paragonato la crisi che ci sta crollando addosso alla grande depressione che investì l’America e il mondo dopo il venerdì nero del 1929. Solo che da allora la nostra vita è drasticamente cambiata. Oggi siamo una popolazione globalizzata di 7 miliardi, più che triplicata rispetto a quegli anni, e la Grande Finanza ha soppiantato il capitalismo nel governo dell’umanità. E questo non è un vantaggio: la finanza è molto più spietata ed egoista del capitalismo, concentra in poche mani tutto il potere, ci riconduce a una sorta di medioevo ipermoderno. Non ce ne rendiamo conto, ma stiamo diventando già adesso dei servi della gleba. In queste condizioni dovremmo essere capaci di inventare uno stato sociale molto diverso da quello che allora adottarono tutti i paesi, liberisti, fascisti e non.
Eppure, nel 1930 l’economista visionario John Maynard Keynes, a cui si deve il welfare che salvò il mondo in quegli anni, nel suo saggio «Economic prospects for our grandchildren», profetizzò che nel giro di 100 anni, quindi nel 2030, il nostro livello di benessere sarebbe stato 4 o 8 volte più alto e che avremmo lavorato solo 15 ore alla settimana. A prima vista la seconda parte può sembrare quella sbagliata. Invece, nei Paesi più evoluti già adesso il lavoro è di 30 ore alla settimana, e non è assurdo ipotizzare che dopo il coronavirus fra qualche anno quel tempo sarà ancora più ridotto. L’errore potrebbe stare nella prima, e non solo perché dagli Anni 80 in poi la stagnazione ha impedito al nostro benessere di crescere. Keynes aveva pure previsto l’affermazione di un capitalismo sempre più finanziario, solo che nella sua convinzione utopista lo immaginava gestito dagli Stati e non in mano a pochi squali feroci. Ma scriveva anche che la condizione per raggiungere questa qualità esistenziale di benessere con molto tempo libero sarebbe stata niente meno che una crisi di nervi collettiva. Che significava: sarebbe possibile solo con una drastica trasformazione della vita lavorativa e del sistema educativo. Ora, non è azzardato immaginare che proprio il coronavirus potrebbe accelerare questo passaggio.
Certo è che il primo step ce l’abbiamo davanti agli occhi. Il caso Lombardia con i suoi drammatici numeri di contagiati e vittime, una vera e propria strage, ha messo in evidenza la crisi di un sistema che aveva proprio nella sanità il suo fiore all’occhiello. La sanità, però, e quindi la politica che lo gestisce da un mucchio d’anni, in questa emergenza ha commesso un gravissimo errore che è alla base del suo fallimento, continuando ad accentrare negli ospedali i malati e abbandonando completamente il territorio. Mentre sarebbe stato necessario fare l’inverso: l’esperienza insegna che proprio l’occupazione del territorio è il fattore indispensabile per vincere qualsiasi battaglia, in guerra, in politica, in economia. Anziché radunare i malati nei pronto soccorso e in ospedale, bisognava andare a casa loro, fare i tamponi a tutti, muovendo squadre di medici e infermieri con le ecografie polmonari che sono trasportabili oltre che molto più economiche delle radiografie
Bisognava aver creato dei presidi, che sostituissero i focolai dei pronto soccorso e gli impreparati medici della mutua. Un errore concettuale è all’origine del disastro che la popolazione lombarda continua a pagare a caro prezzo. Ma la sanità con la sua diffusa commistione di pubblico e privato è solo la punta dell’iceberg. Perché è tutto il sistema politico e sociale che andrà ridiscusso ora che sta per arrivare il peggio.
Un signore, uno dei tanti che ha appena ricevuto i 600 euro dallo Stato, scrive il suo sfogo su Facebook in modo emblematico e molto pertinente: «Come vivremo quando questo disastro finirà? Come pagheremo gli affitti più cari d’Italia, i treni più cari del mondo gestiti da manager milionari inetti, i prezzi dei negozi più alti e irraggiungibili che ci siano perché i piccoli negozianti sono stati assassinati dalla grande distribuzione che vive solo sullo sfruttamento dei suoi lavoratori? Come vivremo in una città che da un giorno all’altro ha perso il suo indotto dovuto al turismo, alla produttività gonfiata di un terziario lasciato a se stesso o all’energia dei singoli, mai supportato dal sistema pubblico? Come vivremo in una città che ha premiato i ricchi, i furbi, gli imprenditori amici di cordata e i palazzinari compiacenti? E’ ora di ripensare da capo tutta la gestione politica, culturale, economica lombarda, milanese, italiana, o tutti noi saremo spacciati».
Questo è il problema. Davanti a noi abbiamo solo le allucinanti sparate e menzogne di alcuni leader politici, il vuoto attorno e la tragica impotenza di un paese schiacciato dall’egoismo rapace della Germania e dei suoi complici. E non illudiamoci di essere come negli anni Trenta, di avere ancora i soldi per il welfare. O ce li danno gli altri, o non ci sono. E chi ci potrebbe mai portare fuori da queste secche nel desolante panorama di incapacità e cialtroneria politica che ci rappresenta, a destra come a sinistra e ovunque? Il dramma è che i prestiti da usurai che rischia di darci l’Europa saremo costretti a prenderli, perché se no andremo incontro alla cosa peggiore, che è il fallimento. Ma anche in questo caso ci vorrebbe un progetto, un’idea di rinascita che premi finalmente i migliori e non le solite mafie. Bisognerebbe saper ricostruire il futuro partendo dalle nostre forze e dai nostri valori, da tutte quelle cose che abbiamo sempre disprezzato, come la cultura, ad esempio. Diceva Goethe: «Non vi è alcun metodo più sicuro per evadere dal mondo che seguire l’arte, e nessun metodo più sicuro di unirsi al mondo che tramite l’arte».
L’Italia ha un patrimonio d’arte immenso. Solo che noi, come scrive ancora il signore citato sopra, abbiamo «l’arte del pubblico gestita da freddi e ottusi burocrati senza alcuna idea progettuale e di sistema, i musei pubblici chiusi agli artisti che lavorano sul territorio e aperti ai furbetti e agli amici degli amici, premiando i galleristi à la page e i collezionisti che comprano a Basilea e mai in Italia e non le migliaia di artisti senza referenze e protezioni».
Eppure, se mi fermo e guardo questo nostro Paese così com’è, c’è una cosa che mi colpisce. La sua bellezza non è stata solo fatta dalla natura. E’ stata fatta da noi. Queste città incredibili, piccole e grandi, dalla Sicilia alla Lombardia, da Firenze, a Venezia, a Bagni Vignone, le abbiamo fatte noi e queste colline che si inseguono tra balzi e vigneti le hanno disegnate i nostri contadini, e Portofino e la Costiera amalfitana non sarebbero così belle senza di noi. Gli scempi edilizi che deturpano i nostri paesaggi, i ponti delle autostrade che crollano, le periferie allucinanti vengono proprio dall’avidità cieca che ha caratterizzato il sistema ultraliberista prima del coronavirus. Proviamo a ripartire dalla bellezza, in tutti i sensi. Dal merito e dalla bellezza. Abbiamo un mucchio di difetti, è vero. Ma siamo così. Siamo italiani.