Quando si sta per far cassa, si vende. Quando si è ormai a un passo dal fallimento si vendono anche i beni di famiglia. Ciò che però è insensato è il consentire di vendere i gioielli con il diritto di smontarli per fare due soldi in più. E la questione è tanto più vera se si tratta degli edifici storici. Perché non vi è nulla di male a vendere il patrimonio storico all’orientale di turno; tanto non se lo porta via oltre la linea dove sorge il sole. I beni immobili hanno il pregio di non essere mobili. Corrono in cambio il rischio di essere snaturati, definitivamente alterati. E il rischio lo corrono tanto di più quanto la loro struttura storica ha dato loro un destino difficilmente alterabile. L’alterazione corrisponde a una damnatio memoriae che non è lontana dai crimini giacobini che mozzavano le statue dai portali gotici o da quelli talebani quando fanno saltare in aria i budda.
Ecco il rischio che corre lo straordinario edificio di corso di Porta Romana che sta per essere venduto. Nasce come scuola magniloquente per ragazze subito dopo l’Unità d’Italia quando Milano si sta ridisegnando con la nuova Galleria Vittorio Emanuele II. Ha grande scalone e aule prestigiose. Diventa poi, negli anni 20 del XX secolo la prima sede decentrata della Facoltà di Diritto dell’Università di Pavia e sarà così l’embrione dell’Università Statale. Avrà un’Aula Magna tuttora esistente con la più bella cupola di vetro giallo da cattedrale che ci sia in città. Da lì l’università si sposterà nel dopoguerra alla Ca’ Granda e l’edificio torna a uso comunale per diventare deposito delle schede elettorali.
L’Aula Magna diventa sala delle chiamate elettorali. Da quando siamo passati all’elettronica la città s’è dimenticata del prestigioso edificio dalle grandi finestre ottocentesche che si rivela percorrendo la via sotto la torre Velasca. Avevo pensato quand’ero assessore quasi vent’anni fa che sarebbe stato quello il luogo ideale per una forte sede museale, ma allora i vigili urbani ci parcheggiavano le motociclette e si sa che la volontà d’un vigile è ferrea e incorruttibile: non fu possibile fare nulla.
La disincantata gestione Moratti ha messo il monumento in un pacchetto bancario-immobiliare che ora va in vendita. Il museo ovviamente non si farà. Basta quello dell’Arengario a soddisfare le esigenze cittadine. L’Expo ha ben altri scopi che dare alla città una struttura culturale. Abbia almeno l’amico Artioli della Soprintendenza il garbo di notificarlo fuori e dentro per evitare lo scempio commerciale e consentire a Milano, quando tornerà a pensare e progettare, di ricomperarlo e dargli un destino utile ai cittadini. (Fonte: Corriere della sera)