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Hollywood, su Netflix la nuova serie di Ryan Murphy con Darren Criss e Patti LuPone

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Hollywood, su Netflix la nuova serie di Ryan Murphy con Darren Criss e Patti LuPone. Demoni e dei prendono vita sullo sfondo della mecca del cinema

Il compito del cinema non è quello di rappresentare il mondo per quello che è, ma per quello che potrebbe essere. Lo dice uno dei protagonisti di Hollywood, la nuova serie Netflix di Ryan Murphy.
Dopo The Politician (con Ben Platt, Gwyneth Paltrow e  Jessica Lange) questa è la seconda mini-serie che il creatore di Glee e American Horror Story realizza per il colosso streaming. Murphy prosegue con questo nuovo lavoro nel suo omaggio al mondo del cinema negli anni d’oro di Hollywood, quello dei grandi studi di produzione dove la vita privata e la carriera delle grandi star vanno a braccetto con i loro vizi e le loro tragedie.

Murphy già con Feud aveva portato sul piccolo schermo una delle tante storie che hanno reso Hollywood un luogo leggendario anche al di là dello schermo: la rivalità tra Bette Davis (un’incredibile Susan Sarandon) e Joan Crawford (Jessica Lange, sua attrice feticcio). La lotta tra dive in versione televisiva si muove in maniera brillante tra verità e leggenda, ma sempre rimanendo il più attendibile e verosimile possibile (concedendosi solo qualche piccolo guizzo di fantasia, tra sogno e realtà).

Con Hollywood invece ci troviamo di fronte a un altro tipo di operazione. Partendo da storie reali (realistiche?) Ryan Murphy dirotta la narrazione spingendola nelle vertigini del what if (come Tarantino in C’era una volta a… Hollywood).
Una pompa di benzina dove gli aitanti benzinai sono prostituti in incognito per dive attempate e attori segretamente gay? Un’attrice cinese bravissima che non riesce a far decollare la sua carriera al di lì di ruoli secondari e stereotipati? Cene a casa di uno dei registi più influenti della mecca del cinema con il meglio dell’alta società (Vivien Leigh e Laurence Olivier, Katharine Hepburn, Cole Porter, Tallulah Bankhead, etc.) che dopo mezzanotte si trasformavano in party in piscina (un po’ sporcaccioni, ovviamente) per soli aitanti giovinotti? Un sordido agente senza morale e senza scrupoli – capace di creare e distruggere carriere come quelle di Lana Turner e Rock Hudson – che raccattava aspiranti attori senza talento ma di grande avvenenza e in cambio di favori sessuali li trasformava in star? Sembra l’intreccio di uno sceneggiato di serie B. Invece… Tutto vero. Tutto falso.

Servizio completo. Il benzinaio gigolò che provvede a rifornire divi e divine di giovani pollastri è ispirato a Scotty Bowers, che nel 2012 ha dato alle stampe uno scandalosissimo libro di memorie in cui ne racconta di cotte e di crude: Full Service: My Adventures in Hollywood and the Secret Sex Lives of the Stars.

L’attrice cinese? Celebrata lo scorso gennaio anche da Google, è Anna May Wong, confinata dal mondo del cinema in ruoli marginali: era prassi far recitare nel ruolo dei personaggi asiatici protagonisti stelle occidentali truccate all’orientale (come Katharine Hepburn in La stirpe del drago, 1944). Nel 1935, per esempio, l’attrice viene scartata dalla Metro-Goldwyn-Mayer per il ruolo da protagonista in La buona terra in favore di Luise Rainer (tedesca), che truccata da cinese verrà premiata con un Oscar. Anna May Wong è stata però la prima attrice di origine asiatica protagonista di un telefilm. Purtroppo i negativi sono andati bruciati e di quella serie non è rimasto nulla.

I party zozzoni in piscina? Sono quelli a casa di George Cukor, regista di pellicole di successo come Piccole donne, Scandalo a Filadelfia, Donne, e amico di tutte le star.
Il viscido “scopritore” di talenti? Henry Willson, un vero e proprio burattinaio, sadico e perverso, che teneva in pugno la stampa e le belle speranze di attori dotati ma senza talento – in un libro tutti i retroscena della sua carriera: The Man Who Invented Rock Hudson: The Pretty Boys and Dirty Deals of Henry Willson.

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Dreamland. Un regista (Darren Criss) e uno sceneggiatore nero (Jeremy Pope), squattrinati ma pieni di idee, vogliono portare sul grande schermo la storia di Peg Entwistle. Nel 1932 l’attrice, a soli 24 anni, rimasta senza ingaggi – vedendo infranti tutti i suoi sogni – si butta dall’insegna di Hollywood (allora ancora Hollywoodland), un faro che ha attirato a sé tanti sognatori che hanno visto le loro speranze naufragare miseramente. Più che una fabbrica dei sogni quella del cinema è stata una vera e propria fabbrica di incubi. Quanti gli scrittori, registi, attori di talento che non ce l’hanno fatta? Quanti disposti a vendersi per qualche minuto di fama?
Con loro un aspirante attore (David Corenswet), bellissimo ma inesperto, che si ritrova incastrato tra un matrimonio infelice e l’attività di richiestissimo prostituto, un’attrice nera che vuole emanciparsi dai ruoli di sguattera sopra le righe, un’ex diva del muto (Patti LuPone) sposata col boss di uno studio di produzione che è stufa di fare la casalinga.

Siamo nel 1947, il Codice Hays al cinema detta legge, è un sistema di censura pensato per mantenere integra la morale degli americani dopo i bagordi degli anni ’20. Niente nudi, sesso, promiscuità, balli lascivi, figuriamoci le perversioni sessuali (ovvero l’omosessualità), niente droga e alcol, impossibile ridicolizzare la religione: bandite tutte le volgarità. Betty Boop? Troppo sexy e sfrontata.
Un film sceneggiato da un nero? Impossibile. Un attore gay dichiarato? Nemmeno per sogno. L’omosessualità tra gli addetti ai lavori non era un problema, ma non doveva assolutamente trapelare. In quel caso tra i possibili scenari c’erano carriere finite, prigione e manicomio.

Il maccartismo era alle porte: guai ai comunisti, il KKK continua ad agire col favore delle tenebre ma in maniera pervasiva. «È stata una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo Paese abbia mai avuto» disse Eleanor Roosevelt in proposito. Nella trama della serie di Ryan Murphy, non a caso, si rivela decisivo proprio l’intervento dell’ex first lady in visita agli studios. Le regole vanno cambiare.

Sullo sfondo delle feste a casa di Cukor e del via vai alla Pompa di benzina scopereccia, mentre – tra mille tribolazioni – il film su Peg sembra prendere forma i protagonisti si accorgono che la storia che vogliono raccontare è un’altra. E con loro Ryan Murphy. Invece di  limitarsi a portare sullo schermo l’Hollywood Babilonia di Kenneth Anger, l’autore con la sua Hollywood decide di raccontare un’altra storia, una tutta nuova pensata per rendere omaggio e risarcire gli outsider, gli sconfitti e gli emarginati rimasti stritolati dagli ingranaggi della terra dei sogni.

E se Peg non si fosse buttata? Cosa sarebbe successo se il razzismo non avesse stroncato le carriere di attrici come Anna May Wong e Hattie McDaniel? Cosa sarebbe successo se Rock Hudson (e con lui molti altri) non avesse dovuto nascondere la sua omosessualità? Quella di Murphy è un’operazione a tratti ingenua, didascalica, che si muove sui binari dell’inclusione e della rappresentazione a tutti i costi, ma commovente e romantica – disperata – come solo il grande cinema può essere.

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