Davide Robaldo (Torino, 1994) vede nella pittura innanzitutto un gesto naturale e istintivo, quello che qualsiasi bambino o bambina inizia a fare se vengono loro dati delle matite o dei colori.
È un caldo lunedì d’estate e Davide mi accoglie nel suo studio in zona San Paolo. Prima ancora di iniziare a raccontarmi di come abbia iniziato a dipingere, mi mostra i suoi lavori: ne emerge a primo impatto il fondo rossastro, che dà loro una certa cruda carnalità, viva e pulsante; negli atteggiamenti delle figure si intuiscono riferimenti “pop” al mondo contemporaneo ma amalgamati dal colore e nella composizione. Si intuisce, a un’osservazione più attenta, il procedimento creativo: una continua ripresa e rielaborazione di modelli e immagini, un’emulazione che parte da un soggetto per trovarne un altro. Vi sono numerosi ritratti di piccolo formato, un paio di composizioni affollate, un dipinto la cui cornice lascia scoperta la metà sinistra del quadro, di modo che le due figure ritratte a destra entrino in dialogo con la parete; mancano il bellissimo Cristo non è mai morto e Young Ladie perché in temporanea esposizione presso 28factory, studio musicale recettivo ai giovani artisti recentemente avviato da Nicolò Lojero.
Davide Robaldo (Torino, 1994) ha frequentato il Liceo Artistico Renato Cottini, sotto la guida e l’aura del pittore Santo Tomaino, al tempo suo insegnante: ne parla con un sorriso nostalgico e di ammirazione. Tomaino è stato per lui un mentore e un maestro, a cui deve la propria iniziazione al linguaggio pittorico. Linguaggio che non abbandona ma che mette in stand-by negli anni dell’università, in cui studia Design e Comunicazione al Politecnico di Torino; poi si occupa di grafica con l’Associazione Culturale Azimuth (Torino) e per la rivista Sugo News (Torino e Milano). Ma il bisogno di dipingere rimane, come un’esigenza profonda, “di pancia”, per citare le sue parole.
Il primo progetto che realizza nel 2018 è Fantomatico: una serie di ritratti che vogliono volutamente sfuggire a una definizione delimitata dall’artista. I piccoli quadri, allestiti secondo le diverse occasioni in modi differenti, vogliono far sì che alla pittura sia data una vocazione più performativa, in cui lo sguardo dell’osservatore possa liberamente interpretare e costruire narrazioni. Ora Davide si sente distante da quei lavori, a cui non nega il valore di tappa del proprio percorso, ma che ritiene in qualche modo “oltrepassati”.
Quello che tormenta fin da subito il giovane pittore è la domanda fondamentale: che cos’è la pittura e perché ha ancora senso produrne? “La così detta crisi della pittura è in atto, con alti e bassi, dalla fine degli anni Sessanta” mi dice sorridendo, “eppure si è continuato a dipingere e credo si farà sempre”.
Interrogandosi su cosa sia la pittura oggi, nei musei, nelle case, nella vita quotidiana, ma anche nelle fiere e negli eventi legati al mondo dell’arte contemporanea, Davide vi vede innanzitutto un gesto naturale e istintivo, quello che qualsiasi bambino o bambina inizia a fare se vengono loro dati delle matite o dei colori; e, in quanto gesto primordiale, dotato del potere di riuscire a raggiungere un pubblico molto ampio, con un impatto forte e persistente. La pittura resta un mezzo potente di studio e interpretazione della realtà anche per la sua semplicità.
Non si può però non fare i conti con quanto è successo negli ultimi cinquant’anni di storia artistica, con la continua messa in discussione del suo senso di esistere e soprattutto di essere ancora praticata. C’è quindi nel suo approccio alla figurazione un iniziale tentativo di distaccamento, un guardare da fuori per entrare dentro. Per spiegare questo concetto cita i lavori che Gerhard Richter elabora dal 1973 a partire da Tiziano. “Credo che lì ci sia tutto”.
Colpito dal lavoro del maestro veneto, Richter procede verso una riproduzione che vede un graduale annullamento della superficie pittorica: delle figure delineate dal colore tizianesco resta un’eco, una suggestione lontana, un suggerimento. Davanti a questo atto apparentemente iconoclastico si intravede invece la volontà di omaggiare il maestro veneto, di instaurare un dialogo con la tradizione e, soprattutto, di ridare alla pittura quel senso che sembra continuamente aver perduto mediante una riflessione meta-pittorica che estrae “dal figurativo l’astratto”, introducendo una forte componente intellettualistica.
Uno dei punti centrali del lavoro di Davide appare come un’esigenza profonda di sperimentarsi nel linguaggio figurativo più “canonico”, pennelli e colori alla mano, introducendo una riflessione su quello che è la tradizione, più o meno recente, a cui guarda come a un punto di riferimento fondamentale.
“Come siamo connessi oggi? Qual è la mia tradizione?” sono le domande che nascono nella nostra chiacchierata. La presenza nei suoi dipinti di soggetti che fanno riferimento a temi religiosi sono una parte di questa domanda. Arte e religione sono connesse da sempre, come arte e politica. “Non mi definirei un credente ma sicuramente una persona spirituale, che vede nella spiritualità una risorsa e una parte imprescindibile del nostro vivere”. A questo si aggiunge un interesse per così dire “antropologico” verso la religione, che nonostante il mondo secolarizzato dei consumi continua a esistere, in sottofondo, e “negare il peso che ha avuto in passato, così come quello che tutt’ora ha, sarebbe un errore”. Il recupero delle tradizioni si risolve però in una sorta di “sincretismo” artistico: l’immaginario visivo di Davide è estremamente articolato, stratificato e in continuo ampliamento. Essenziale nel suo lavoro è la fascinazione per l’infinita produzione di immagini del mondo attuale, che si traduce in un recupero di istantanee prelevate dal quotidiano più “pop”: le riviste, i giornali, le pagine Instagram, la televisione, il web. Il desiderio di “attualizzare” il più possibile il linguaggio pittorico si unisce alla pari considerazione di tutte le immagini, non solo quelle artistiche, e in questo atteggiamento si ritrovano le tendenze degli ultimi anni in ambito di teoria dell’immagine; potremmo richiamarci velocemente a Horst Bredekamp o a Hans Belting.
Su questo immenso bagaglio però, si innesta sempre il valore normativo e regolatore della tradizione, impiegata come strumento critico attraverso cui si riesce a riorganizzare il materiale in modo che acquisisca un significato, raggiungibile di volta in volta grazie alla nostra esperienza, agli strumenti intellettuali che ci rendono criticamente capaci di ragionare sulle cose.
Il significato, tuttavia, non è monolitico e imposto dall’artista in modo assoluto: parte fondamentale del lavoro è la volontà di registrare quella sensazione di spaesamento che si percepisce di fronte al magma caotico della realtà e offrirne una testimonianza aderente. L’impossibilità di costruire un “senso” assoluto, onnicomprensivo e universale appare come il tassello finale del processo creativo, che vuole attivare nello spettatore un interrogativo, la cui risposta non può che restare individuale.
Questo contenuto è stato realizzato da Giulia Perrucci per Forme Uniche.
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